2015-04-18 13:17:00

Erbil, P. Fortunato tra i profughi: ho trovato luci nell'inferno


“Non bisogna rinunciare a costruire la pace attraverso la testimonianza e il dialogo”. Così padre Enzo Fortunato, direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi, al suo rientro dall’Iraq dove ha visitato i campi profughi della città di Erbil. In migliaia le persone in fuga dalla violenza dei gruppi jihadisti dell’Is che seminano morte e distruzione. Al microfono di Massimiliano Menichetti lo stesso padre Enzo:

R. – Siamo stati in tre campi di accoglienza: ci sono 12 mila cristiani profughi ad Erbil. In tutte e tre i campi abbiamo ascoltato vicende che graffiano il cuore.

D. – Mi può raccontare alcune di queste testimonianze?

R. – La prima è di una signora di 80 anni, vedova, che dinanzi alle milizie dell’Is ha detto: “Voi potreste essere miei figli… Non rinnego la mia fede cristiana. Uccidetemi, toglietemi tutto, ma la fede non potete togliermela!”. L’hanno cacciata via da Mosul. Una testimonianza forte: una donna che, nonostante l’età, ha saputo essere lievito, testimoniare fino alla fine.

D. – Lei ha incontrato anche un sacerdote, che è stato nelle mani dei gruppi jihadisti…

R. – Don Douglas. E’ stato torturato: gli hanno rotto i denti, il setto nasale a furia di pugni e di botte... è stato massacrato ed incarcerato per dieci giorni. Poi, dopo le cure, è ritornato ad Erbil, ad Ancawa esattamente, e lì, nel campo profughi, sta immettendo entusiasmo, vitalità, con una forza senza precedenti.

D. – E’ stato liberato dai suoi aguzzini?

R. – Non siamo entrati nei dettagli, ma credo sia stato liberato dai militari della coalizione internazionale. E’ così potuto ritornare sano e salvo. Questo sacerdote testimonia la forza del Vangelo. Ha incoraggiato anche noi a continuare in questa strada che porta solidarietà e pace.

D. – Cosa vuol dire testimoniare la pace dove la violenza uccide e perseguita?

R. – Significa portare una testimonianza disarmata. Dinanzi ad atteggiamenti come la guerra, come l’odio, come la morte e l’uccisione, io credo che il miglior attacco – per adoperare un termine bellico – sia quello di una testimonianza silenziosa, che disarma il cuore. Anche se questo apparentemente può sembrare difficile, può sembrare utopico e impossibile, però è la strada migliore.

D. – Prima mi ha parlato anche di un terzo incontro, segno di speranza, in uno dei campi profughi di Erbil…

R. – Sì, un giovane di 22 anni. Appena ci ha visti, ci ha sorriso, ci è corso incontro e ci ha abbracciati e ci ha detto: “Faccio parte della gioventù francescana. Cerco di testimoniare la pace di San Francesco in questo campo profughi”. Questo giovane ha perso la casa, i suoi amici e lì cerca di essere un testimone del Vangelo. Il suo sorriso dava gioia, dava speranza.

D. – A giugno avvierete una iniziativa: una grande raccolta fonti per la costruzione di un ospedale. Di cosa si tratta?

R. – 35 posti letto, un reparto di Pronto soccorso, un reparto di pediatria e di maternità. C’è un’urgenza nel ricoverare e nel curare le ferite in maniera gratuita per tutti, musulmani, cristiani, di altre fedi. C’è già uno scheletro pronto, quello di un edificio adibito a centro commerciale, che è poi diventato un rifugio per i profughi e ora diventerà un ospedale.

D. – Come si può sostenere questo progetto?

R. – Collegandovi al nostro sito "sanfrancesco.org" troverete tutte le indicazioni per aiutarci e fare del bene.

D. – Lei personalmente che cosa riporta da questo viaggio?

R. – Porto nel cuore il grido di una umanità sofferente, ma porto nel cuore anche il desiderio di non demordere e di non scoraggiarsi nel compiere e nell’esortare a vivere il bene. Un’altra grande consapevolezza è quella di vivere, dovunque siamo, atteggiamenti di pace: solo gli atteggiamenti di pace disinquinano l’aria di guerra che respiriamo.








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