2015-02-25 13:21:00

Onu: in Afghanistan detenuti torturati e maltrattati


In Afghanistan i detenuti sono ancora vittime di torture e maltrattamenti. E’ la denuncia dell’Unama, la Missione delle Nazioni Unite di assistenza nel Paese. Secondo i dati raccolti il 35% dei detenuti è soggetto a violazioni da parte delle forze di sicurezza.  Massimiliano Menichetti:

Oltre un terzo dei detenuti afghani, secondo le proiezioni dell’Onu, è torturato o maltrattato. Elettroshock, pestaggio violento e torsione dei genitali le pratiche più utilizzate, ma anche l'asfissia fino allo svenimento o la costrizione a posture stressanti. Oltre mille i detenuti intervistati dall'Onu, 278 quelli che hanno ammesso di essere stati torturati o maltrattati da parte delle forze di sicurezza. Attualmente sono 27.800 le persone in carcere nel Paese. Nel 2013 l'allora presidente Hamid Karzai approvò un decreto contro le torture, quattro anni fa infatti uno studio dell’Unama evidenziò che le violazioni venivano praticate su quasi la metà della popolazione carceraria. Le Nazioni Unite oggi rilevano un calo della brutalità che comunque persiste, infatti ribadisce Georgett Gagnon, direttrice per i diritti umani della Missione Onu: “l'impunità rispetto alle torture fa sì che questa pratica continui senza soluzione di continuità''.

Per un commento abbiamo raccolto il parere di Mauro Palma, presidente del Consiglio Europeo per la cooperazione nell'esecuzione penale:

R. – Sono percentuali particolarmente alte - anche se c’è questa flessione che in qualche modo può far ben sperare in una maggiore consapevolezza del problema - che ci fanno riflettere su due questioni. La prima questione è l’investimento che si deve fare sul piano della formazione degli operatori: è necessario che il trattamento violento delle persone che sono loro affidate sia percepito come un qualcosa che diminuisce la loro professionalità e non come qualcosa che è quasi intrinseco alla punizione. La seconda questione è che queste forme di maltrattamento e tortura non diminuiscono finché c’è un atteggiamento complessivo di tolleranza e quindi di impunità rispetto ad esse. La tortura, e la sua persistenza, si nutre di questo atteggiamento di tolleranza, di indagini malcondotte, di indagini spesso condotte dagli stessi organismi di polizia a cui appartengono i supposti perpetratori, di indagini aperte, a volte, per far contenta l’opinione pubblica ma poi condotte senza portare avanti effettivi ed efficaci atti investigativi, indagini che arrivano anche a processo e poi invece vedono pene estremamente lievi.

D. – Quindi serve maggiore trasparenza e certezza della pena nei confronti di chi tortura?

R. – Certezza della pena è un termine su cui dobbiamo essere molto chiari. Non va letto, come a volte avviene, sono nell’accezione in cui la pena deve essere fissa e implacabile. La pena deve essere certa, nel senso che si deve sapere che ciò che la legge prevede come reato avrà una punizione se tale reato sarà commesso. Dopo, nel corso dell’esecuzione penale, possiamo valutare, caso per caso, se si può stabilire un percorso che renda la pena certa ma non necessariamente fissa, avviando percorsi di reinserimento nel contesto sociale dei condannati.

D. – Secondo lei il clima di instabilità che è tuttora presente in Afghanistan e quindi anche di violenza si riflette all’interno delle carceri?

R. – Vado per analogia. Per esempio, ho avuto un’esperienza diretta sia nei Balcani nel post-conflitto nel Caucaso, Cecenia, etc. La violenza che c’è nel post-conflitto si riflette fortemente perché molto spesso l’elemento della tortura noi lo associamo agli aspetti di ottenere informazioni, confessioni; invece molto spesso la tortura si nutre di vendetta, di non credere alle punizioni legali e volere infliggere punizioni extra-legali. Uno dei primi aspetti che caratterizzano un Paese che esce da un conflitto nel suo ritorno alla legalità è quello ad abituare ad aver fiducia nella legalità stessa. E questo è molto difficile perché magari le popolazioni hanno subito situazioni di palese illegalità e quindi hanno un risentimento molto forte. Per questo credo che sia molto importante che anche gli Stati che contribuiscono al processo di pacificazione, di ritorno alla normalità, abbiano le carte in regola per poter dire qual è la via da seguire. Stati che in qualche modo hanno loro stessi perpetrato violenze in quel territorio difficilmente possono dare messaggi che siano ben recepiti dalla popolazione.








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