2015-02-13 09:31:00

Myanmar: scontri tra esercito e minoranza Kokang


Tre giorni di scontri al confine tra Cina e Myanmar hanno causato quasi 50 morti. Oltre 70 soldati birmani sono caduti nell’imboscata dei ribelli di etnia cinese Kokang. Fonti locali parlano anche di migliaia di civili in fuga. Il Myanmar registra, lungo la frontiera orientale e settentrionale, la presenza di diverse minoranze: si tratta di un terzo della popolazione. Al microfono di Benedetta Capelli, padre Bernardo Cervellera, direttore di Asianews: 

R. - Ci sono decine di minoranze che già dall’indipendenza non sono mai riuscite ad essere amalgamate perfettamente allo Stato. In più, con la dittatura militare e adesso con il nuovo Stato “semi-laico” queste non riescono ad avere un minimo di autonomia, non dico di indipendenza; i loro territori, le loro economie vengono sfruttate, ma le minoranze rimangono povere ed emarginate. Questo è il grande problema. I cosiddetti “kokang” sono delle minoranze di etnia cinese che per tutti questi anni non hanno potuto fare molto, ma in quella zona lì c’è un grande sviluppo dal punto di vista economico dovuto al rapporto tra Myanmar e Yunnan, tra Myanmar e Cina. Questo sviluppo economico, di fatto, mette ai margini tutte queste minoranze. Per questo motivo le minoranze si ribellano.

D. - Tra l’atro c’è comunque ancora un conflitto in corso con i ribelli Kachin nel Nord …

R. - Sì, anche con i Kachin è la stessa cosa, oppure con altre minoranze come i Kayah o altre come Chin, sempre per quanto riguarda lo sfruttamento delle acque, delle miniere, dei legnami; la Cina sta portando via dal Myanmar tonnellate – migliaia di tonnellate – di legname pregiato distruggendo le foreste del Myanmar. Quindi queste situazioni in cui la popolazione locale si impoverisce a favore invece della ricchezza della Cina e del governo del Myanmar sono la causa della guerra.

D. - Alcuni Paesi membri dell’Unione Europea nelle settimane scorse hanno fatto una dichiarazione congiunta criticando disegni di legge che sono al vaglio del parlamento birmano e che riguardano la libertà religiosa. C’è un pericolo vero per la libertà religiosa in Myanmar?

R. - Attualmente la libertà religiosa è abbastanza riconosciuta. Certo, il governo è sempre molto sensibile alle critiche, per cui finché c’è libertà di praticare la religione, i culti, questo non viene toccato; se invece le religioni fanno qualche critica o si esprimono nella società questo diventa un po’ problematico in quanto c’è il tentativo di soffocare dal punto di vista delle pubblicazioni e delle espressioni sociali. Poi c’è una tensione molto forte nei confronti del mondo musulmano, delle minoranze Rohingya. In qualche modo il governo - o per lo meno i militari - sono conniventi nel suscitare un certo nazionalismo buddista - anche violento - contro questi musulmani.

D. - Il Paese è tra l’altro chiamato alle urne il prossimo novembre. Resta l’incognita della partecipazione di Aung San Suu Kyi. C’è una soluzione possibile perché  la leader dell’opposizione birmana possa partecipare al voto e candidarsi alla presidenza?

R. - Il problema della leader birmana è che non può diventare presidente come magari lei sperava. Ma di per sé, partecipare come come candidata a parlamentare penso sia possibile, anche perché lei attualmente fa parte del parlamento. Il punto è che ci sono dei limiti al fatto che lei diventi presidente quindi rappresentativa dell'’immagine ideale del Myanmar in tutto il mondo.








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