2015-02-12 13:25:00

Obama chiede a Congresso uso della forza contro jihadisti


Il presidente statunitense Obama ha chiesto al Congresso l’autorizzazione all’uso della forza militare per tre anni contro il sedicente Stato Islamico. Escluso per il momento l’invio di truppe in Iraq e Siria e l’impegno in operazioni di terra durature. La risoluzione prevede il dispiegamento di unità speciali in circostanze specifiche. Eugenio Bonanata ha raccolto il commento del giornalista Domenico Quirico, del quotidiano La Stampa, autore di un libro intitolato “Il grande califfato”:

R. – All’inizio della presidenza di Obama, molti anni fa, ci fu quello che venne celebrato come un discorso storico rivolto al mondo islamico, in cui lui ribaltava le carte rispetto ai ‘mostruosi errori della presidenza Bush’. Dopo molti anni, di quel discorso non parla più nessuno, perché era retorica. E lo stesso Obama è costretto - dai fatti e non da scelte politiche volontarie - a fare le stesse mosse che fece Bush quando iniziò la sua discussa guerra contro il terrorismo. Quindi la conferma di una diplomazia basata su una presunta leadership mondiale con l’incapacità di rendersi conto del fenomeno mostruoso che si stava verificando in Medio Oriente, in Africa e in altre zone del mondo. Insomma, queste timide misure di operazione di forze speciali mi sembrano largamente superate dai fatti: cioè, il califfato ha preso un vantaggio che nessuna dichiarazione del presidente americano può, ahimè, colmare.

D. - Cosa dire della formula utilizzata da Obama?

R.  - E’ la formula di chi dichiara di fare la guerra e poi non la vuole fare. E’ una delle contraddizioni della presidenza Obama. Ma credo ci sia anche un problema strutturale, di incapacità di comprendere la natura di quello che è il fenomeno storico del califfato: siamo ancora nei termini di un contenimento del terrorismo. Ma questo terrorismo - lo dice anche Obama - potrebbe addirittura colpire nuovamente nel territorio americano. In realtà il problema dell’islam politico armato radicale, del “totalitarismo” islamico, come lo chiamo io, è ben più complesso di quello di una reincarnazione sotto nomi diversi di quella che è stata l’epoca di Al Qaeda e di Bin Laden. Siamo in una fase storica assolutamente successiva ma ho l’impressione che a Washington, come spesso accade, si iniziano sempre le guerre facendole nello stesso modo in cui è stata fatta la guerra precedente. Mentre, in realtà, gli altri – cioè la controparte - ti propongono e ti impongono una guerra diversa. Questo è il problema fondamentale di oggi.

D. - Qual è il ruolo dei Sauditi in questa partita?

R. - Questa è una buona domanda. Il lungo cammino del progetto totalitario islamico è iniziato in realtà nel 1973: quello è il momento in cui l’Arabia Saudita, grazie al boom dei prezzi del petrolio, ha avuto a disposizione una quantità enorme di denaro, che ha impiegato nella diffusione nel mondo, attraverso la costruzione di moschee e l’invio di predicatori radicali, del Wahhabismo che è il cuore stesso dell’Arabia Saudita. Infatti l’hanno inventato loro: è l’unico Paese al mondo in cui il nome di un Paese è attaccato a quello di una dinastia regnante, non ce ne sono altri. In quel momento il percorso storico dell’islam politico radicale ha iniziato a scalare a poco a poco questo suo progetto attraverso vari momenti - l’Algeria, l’Afghanistan… - fino ad arrivare alla sua estrinsecazione somma, che è il progetto della costruzione e della realizzazione, di fatto, sul terreno, del califfato. Tutto nasce lì. Poi i rapporti che l’Arabia Saudita ha con questo progetto sono ovviamente altalenanti, a seconda delle condizioni storiche in cui si trova ad operare, ma resta lì il cuore di tenebra del totalitarismo islamico. E fino a che non si risolve il problema dei rapporti con quel luogo del mondo, con quella dinastia, con quei ‘creatori di estremismo’, il problema non sarà mai risolto.








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