2015-02-01 17:12:00

Carcere e dignità. Don Spriano: cella è somma di solitudini


“Perché i carcerati, in particolare i giovani, abbiano la possibilità di ricostruire una vita dignitosa”. Recita così l’intenzione di preghiera universale per il mese di febbraio. Uno sguardo su un ambiente, il carcere, e una condizione, quella dei detenuti, che richiedono attenzione costante e solidarietà per alleviare la vita in cella. Alessandro De Carolis ne ha parlato con don Sandro Spriano, cappellano nel carcere romano di Rebibbia:

R. – Noi siamo lì e siamo un po’ gli unici a tentare di aiutare i giovani e anche gli adulti a fare un percorso a ritroso nella propria vita e a trovare i perché di quelle scelte sbagliate e i possibili perché di scelte migliori. Questo non è difficile farlo, perché come preti siamo in qualche maniera cercati da tutti, magari anche per le cose più umane di assistenza, da ogni punto di vista. Però, poi, sta a noi diventare dei maestri nel suggerire, nel provocare una riflessione sulla propria vita. Perché se non lo facciamo noi, in carcere non lo fa nessun altro. E’ difficile che il carcere e tutto quello che ci sta attorno riesca ad offrire strumenti per recuperare dove si vuole recuperare.

D. – E allora, dalla sua esperienza, come si comincia a ricostruire la dignità, in carcere?

R. – Ma, si comincia proprio attraverso questa possibilità di colloqui interpersonali, perché siamo di fronte a una stragrande maggioranza di giovani e adulti che provengono da tipi di vita assolutamente vissuti nella marginalità, nella deprivazione, nella povertà, nella solitudine e quindi mai stati ascoltati da qualcuno, che mai hanno potuto immaginare un’amicizia… Per cui, veramente, il primo momento di possibilità di fare un cammino diverso è dato dalla possibilità di ascolto: cioè, la meraviglia di questa possibilità di ascolto spesso fa nascere poi un cammino.

D. – Un giovane, per definizione, è una persona che ha la vita davanti. Il carcere – lei ha detto – non sempre fa sperare in una possibilità…

R. - …mai, mai!

D. – … non fa sperare, il carcere, in una possibilità di reinserimento sociale. Voi come fate per favorire questo aspetto?

R. – Noi riusciamo ad aiutare piccoli numeri di persone, mettendo in piedi una casa di accoglienza, una cooperativa di lavoro, un’assistenza alle famiglie… Cioè, riusciamo quindi a fare supplenza per quanto dovrebbe essere, invece, compito dello Stato, visto che la Costituzione prevede il carcere come “recupero” della persona. Pensi che il motto degli agenti di polizia penitenziaria, in latino, è: “Munus nostrum despondere spem”, “Il nostro compito è diffondere speranza”. Il carcere è tutto il contrario di questo. Ecco, noi attraverso questi mezzi di aiuto vero alcune persone riusciamo davvero a metterle in un percorso dove cambiano sul serio. Io potrei portarle parecchi esempi con nome e cognome di persone giovani che si sono costruire una famiglia, che hanno fatto un figlio, che hanno trovato un lavoro, ecc. Però, se non c’è l’accompagnamento anche al momento dell’uscita… Il carcere, quando uno esce, lo buttano fuori ed è finita, fuori non c’è nessuno ad aspettarlo, è questa è una riflessione che dobbiamo fare anche noi cristiani: se non c’è un accompagnamento, dentro e fuori, è difficile che da sola la persona che ha fatto quel percorso di marginalità, riesca a ritrovare una vita nuova.

D. – E allora, cosa chiede per migliorare la vita di chi è in cella?

R. – Quando ero in parrocchia, anche io non pregavo per chi stava in carcere. Poi ho capito che era una grande mancanza. Direi che dovremmo aggiungere la preghiera: “Signore, aiutami a considerare anche queste persone come dei fratelli e delle sorelle”. Perché se tutti noi cristiani aprissimo la porta a chi ha voglia di cambiare, saremmo davvero capaci di far risorgere un sacco di persone. Il Vangelo non si accontenta di dire che “giustizia è fatta” quando uno viene condannato. Giustizia è fatta quando uno viene riconciliato.








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