2015-01-31 15:10:00

Giornata vita. Convegno al Gemelli sulle diagnosi prenatali


Capire fin dove è arrivata la diagnosi prenatale grazie alle nuove scoperte sul Dna umano e comprendere l’etica di queste ricerche. Questi i temi principali del Convegno promosso dai Dipartimenti di ginecologia ed ostetricia di Roma, dal titolo “Le nuove frontiere della diagnosi genetica”, che si è svolto presso il Policlinico Gemelli. Marina Tomarro ne ha parlato con Domenico Arduini, direttore del Dipartimento di ginecologia ed ostetricia dell’Università Tor Vergata:

R. – Il punto nel quale oggi la scienza è arrivata è quello di cercare di dimostrare che con un prelievo di sangue materno si possono fare indagini genetiche, quantomeno per tre anomalie cromosomiche. Il 30%  di tutte le anomalie è quella legata al "down" e queste tecniche permetterebbero di individuare, con elevata possibilità, le gravidanze che sono a rischio di avere un feto con una patologia "down". E’ chiaro che in questi casi la diagnosi non è assolutamente definitiva, questo è importante che venga precisato: è semplicemente un’informativa che in quel determinato caso vi è un rischio maggiore di avere un bambino "down".

D. – Fin dove arriva l’etica di questa diagnosi, secondo lei?

R. – L’etica della informazione è proprio legata al fatto che, se correttamente utilizzata, questa indagine permetterebbe di rassicurare moltissime coppie di evitare inutili diagnosi invasive e quindi abbattere quegli aborti conseguenti a una diagnostica di tipo invasivo, come per esempio l’amniocentesi, che ha un rischio di aborto, che è dello 0,5-1%.

Ma fondamentale è anche il ruolo dell’organizzazione sanitaria nel supportare quelle famiglie con bambini nati con handicap. Giuseppe Zampino, docente presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore, tra i relatori del Convegno:

R. – Quando nasce un bambino con una malformazione o una malattia genetica, in realtà più che una malattia è una condizione, quindi bisogna passare attraverso un’accettazione. Un’accettazione che passa attraverso la famiglia ma anche da parte di tutto il sistema, di chi opera, chi lavora, con il bambino. Per cui, si passa da una dimensione che è quella classica della medicina, del guarire, a una dimensione del prendersi cura. E prendersi cura significa valutare lo stato del benessere del bambino e garantirlo a 360 gradi, in modo particolare sul territorio dove vivrà, garantendogli tutto quello che può far bene, a lui e alla famiglia, per poter realizzare se stesso.

D.  – Quali sono attualmente le carenze verso l’assistenza di questi piccoli?

R.  – Il punto è che non viene quantificato il tempo impiegato per la gestione di un bambino complesso nell’interno della sanità e quindi questo significa che quello che fai, lo fai come un atto di volontariato. Questo significa che la famiglia si sente sempre in debito con il sistema che gli dà un aiuto. In realtà, no, bisogna ribaltare la questione: la famiglia ha il diritto di essere gestita, il bambino ha il diritto di essere gestito, e l’operatore ha il diritto di poter fare una migliore gestione per avere risorse e tempo necessario per permettere la presa in carico.








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