2014-12-27 12:55:00

Il miracolo della nascita sulla nave che salva i migranti


Nel Canale di Sicilia, approdo per chi scappa dalle guerre e dalla disperazione, continuano le operazioni di soccorso da parte della Marina Militare. Stamani più di 90 migranti sono arrivati ad Augusta dopo essere stati salvati mentre la loro imbarcazione stava colando a picco. In pochi giorni più di mille persone sono state aiutate, in 5 non ce l’hanno fatta. In mezzo a tanta disperazione c’è anche la storia di Salvatore, un bimbo nigeriano nato nel giorno di Natale a bordo della nave Etna. Il servizio di  Benedetta Capelli:

Sorprende sempre una vita che nasce. Lo è ancora di più se avviene a Natale, se la mangiatoia è una nave – la nave Etna della Marina Militare -  se Maria e Giuseppe sono due nigeriani in fuga dalle violenze e da un futuro incerto. Testimony Salvatore è nato grazie al tenente di vascello Serena Petriucciolo, la sua madrina di battesimo:

R. – La mamma del bambino è arrivata a bordo in giornata, trasbordata da un’altra unità navale della Marina. Verso le 22.00 ha cominciato ad avere delle contrazioni, per cui tutta l’equipe sanitaria ha cominciato a darle assistenza; lei era alla quarta gravidanza e infatti era preparatissima e bravissima… Ci ha fornito un ausilio non indifferente. Il bambino è nato alle 23.41, tra la gioia di tutti, il giorno di Natale: lo ha chiamato Testimony, mentre il nome italiano è stato Salvatore. Il giorno dopo con il sacerdote di bordo lo abbiamo battezzato.

D. – Che cosa significa passare il Natale a bordo di una nave e assistere alla nascita di un bambino: sembra un miracolo che si ripete proprio in un giorno speciale…

R. – Eh sì! Praticamente lo è stato perché, in mezzo a tanta sofferenza e tante persone che cercano di porre in salvo la propria vita, vedere la speranza di questa donna, vedere la nascita di un bambino ci ha dato tanto orgoglio, forza, coraggio e una gioia infinita. Veramente ….

D. – Qual è la storia di questa mamma?

R. – Questo è il quarto bambino. E’ fuggita dalla Nigeria con il marito… Lei a me ha detto di essere stata in Marocco, di aver trascorso due mesi lì…Aveva con sé anche una bimba, che è la sua terza figlia; gli altri due bambini – uno di 10 anni e uno di 6 anni – sono ancora in Nigeria.

D. – Per lei, che cosa significa fare il medico su una nave adibita al soccorso delle persone? Spesso in Italia c’è molta reticenza nei confronti degli immigrati, invece aiutarli e stare a contatto con loro fa cambiare la prospettiva su questo dramma?

R. – Io l’ho vissuto soltanto dalla parte di chi li ha aiutati. Dal primo momento, vivere le emozioni di scappa dall’Africa o di chi scappa dalla guerra ancora di più, non lascia spazio a nient’altro! Soltanto alle forti emozioni che si provano, quando si vedono arrivare a bordo queste persone che necessitano di aiuto. Francamente tutto il resto è niente per noi!

In mezzo alla disperazione di persone terrorizzate dal domani, spaventate da un viaggio lungo e spesso dall’esito drammatico, la nascita di un bimbo è la speranza che non muore. Il cappellano della nave, don Paolo Solidoro, racconta così l’emozione di quel momento:

R. - Per un sacerdote la nascita di un bambino in qualsiasi circostanza porta sempre della gioia nel proprio cuore, ma soprattutto porta un arricchimento nel ministero presbiterale al servizio del popolo di Dio e, in questo clima natalizio, per la situazione che tutta la Marina militare italiana sta vivendo in questi due anni con il fenomeno dell’immigrazione. Avere a bordo gente, popoli di diversa cultura, tradizione, religione è come avere la famiglia di Dio in pienezza, senza distinzione di lingua, di razza, di cultura perché tutti abbiamo un unico Dio, un’unica fede. E questo mi ha portato a vivere intensamente il Santo Natale con la gioia di poter dare l’inizio a una vita per questo bambino, una vita nuova, quindi una rinascita ringraziando Gesù Bambino che, anche quest’anno, ci ha portato il dono più bello: quello della vita.

D. - Tra l’altro non è il primo battesimo che lei fa su una nave. Il 16 dicembre ha battezzato un bambino eritreo …

R. - Sì, un bambino eritreo, la cui mamma ha deciso di dargli un nome che significa “disceso dal cielo”. Come sacerdote, come equipaggio, gli abbiamo dato il nome di Mosè, perché significa “salvato dalle acque”, dunque mandato dal cielo e salvato dalle acque.

D. - Mosè e poi è arrivato Salvatore …

R. - La mamma tra tanti nomi ha scelto Salvatore: quindi Salvatore giustamente è il nostro Signore, poi il giorno di Natale è stata la gioia più bella.

D. - Qual è il suo contributo come cappellano all’interno di questa nave che vive momenti di felicità come è stata appunto la nascita di Salvatore, ma anche momenti di una drammaticità forte?

R. – Stando su una nave che poi è la casa, la famiglia dei militari della Marina militare italiana quando si guarda - nonostante le difficoltà e la lontananza dei propri cari soprattutto in questo periodo natalizio -, negli occhi questa gente disperata che lascia la propria terra per trovare un’accoglienza, un gesto di solidarietà, un pizzico di conforto, di pace interiore, non diventa un gesto di carità cristiana, ma diventa un gesto di carità umana. C’è questo toccare con la propria mano la mano di quella persona che sta soffrendo, quindi in quel momento, in quell’attimo, in quell’istante, si percepisce e ci si fa carico della sofferenza altrui. Abbiamo avuto anche dei casi di cadaveri di giovani, che magari hanno lasciato la loro terra con la speranza di trovare una serenità, ma questa speranza si è spezzata nel Mar Mediterraneo. Come sacerdote, sapendo anche che sono fratelli di un’altra religione – musulmani, copti o anglicani -, dinanzi al mistero della morte che giustamente colpisce tutti,  ti fa anche sentire una persona provata. Allo stesso tempo però spinge ad andare avanti  - perché poi la morte di quella persona è speranza per chi lavora, per questi ragazzi militari della Marina, per tutto l’equipaggio, per i comandanti - non è altro che un darsi da fare e cercare di regalare il dono della vita. Ora, questa situazione, questa emergenza, questo farsi carico anche economicamente, culturalmente lo si può comprendere solo e soltanto se la persona vive su una nave e vede con i propri occhi quello che succede, perché raccontarlo è facile, viverlo invece rimane un ricordo vivente.








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