2014-12-24 17:51:00

Amnesty denuncia le violenze jihadiste sulle donne yazide


Alcune donne appartenenti alla minoranza yazida ridotte in stato di schiavitù e stuprate dai militanti del sedicente Stato islamico, piuttosto che sopportarne le violenze, si sono suicidate. A riferirlo è un rapporto di Amnesty International in cui si riportano le testimonianze di oltre 40 ex giovani sequestrate nel nord dell’Iraq, riuscite a fuggire dai loro rapitori. Le uccisioni, le torture e i rapimenti commessi dai jihadisti sugli yazidi a cui hanno sottratto anche i terreni, avrebbero tutte le caratteristiche, secondo Amnesty, di una pulizia etnica. Ma sulla nota diffusa oggi sentiamo, al microfono di Adriana Masotti, il portavoce dell’organizzazione umanitaria, Riccardo Noury:

R. – Centinaia, se non migliaia, sono state le donne, le ragazze minorenni – alcune di 14-15 anni, e persino più giovani – che hanno vissuto l’esperienza terribile del rapimento e poi della prigionia e, durante questa, l’esperienza di essere vendute o date in regalo a combattenti e sostenitori dello Stato islamico, ridotte in schiavitù sessuale, stuprate e purtroppo - in molti casi - uccise. Questo è quello che Amnesty International ha riscontrato durante una missione di ricerca nel Nord dell’Iraq. Abbiamo ricevuto molte testimonianze da parte di ex prigioniere che non erano trattenute in luoghi impervi, grotte, luoghi nascosti … vivevano catturate, prigioniere, violentate dagli uomini che le avevano rapite nell’abitazione di famiglia; quindi convivendo con le mogli e i figli dei loro rapitori. Questa normalità assurda, credo che contribuisca ancora di più a descrivere l’orrore da un lato di questa vicenda eccezionale, e dall’altro il fatto che per lo Stato islamico evidentemente questa è una normale tattica di guerra.

D. – Alcune di queste donne si sono addirittura tolte la vita pur di non subire l’umiliazione e la violenza che immaginavano poi avrebbero subito …

R. – Sì, sono testimonianze agghiaccianti, quelle contenute nel rapporto di Amnesty International, per l’orrore dello stupro subito o di quello che si palesava di lì a breve. Molte ragazze, soprattutto minorenni, che si sono tolte la vita; decine di altre ci hanno provato. Una di loro, Jilan - una delle storie raccontate in questo rapporto - appena maggiorenne – 19 anni - si è suicidata durante la prigionia a Mosul. Erano state distribuite a lei e ad un’altra ventina di ragazze dei costumi da danza; i sequestratori avevano detto di indossarli dopo essersi lavate bene. Con ogni probabilità, era il preludio a quella che sarebbe stata una violenza di gruppo. Jilan si è uccisa poco prima.

D. – C’è una spiegazione del perché di questa crudeltà sulle donne?

R. – Che lo stupro sia un’arma di guerra, ce lo raccontano le cronache di tanti conflitti; basta pensare al Darfur o alla Bosnia. In queste situazioni ci si accanisce nei confronti delle donne perché sono più vulnerabili o per punire i loro mariti e le loro famiglie; si approfitta anche dello stigma che circonda l’esperienza terribile dello stupro: si immagina che una donna sopravvissuta allo stupro debba essere curata, accolta, protetta … e invece viene isolata dalla sua famiglia, dalla sua comunità. Questo è il motivo per cui l’esperienza dello stupro si accompagna, nel caso delle donne yazide, anche l’orrore di aver perso decine di famigliari durante la pulizia etnica dello Stato islamico, e il terzo successivo orrore quello di essere isolate dalla loro comunità in quanto  - poiché vittime di stupro - hanno disonorato la comunità stessa e la famiglia.

D. – Che cosa si sta facendo da parte delle organizzazioni umanitarie per aiutare quelle poche ragazze che comunque sono riuscite a fuggire?

R. – Il governo della regione curda irachena, le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite, le organizzazioni non governative, stanno fornendo cure mediche e anche forme di aiuto psicologico, però questo è insufficiente. Non tutte le sopravvissute allo stupro sono raggiunte, anche perché in alcuni casi si tratta di zone molto impervie, come la regione del Sinjar, e in alcuni casi neanche sanno di avere a disposizione questo tipo di  assistenza. È fondamentale che la comunità internazionale si occupi di loro, perché altrimenti la loro vita rischia di essere segnata per sempre.








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