2014-12-16 14:08:00

Sud Sudan: un anno fa l’aggravarsi delle violenze


È trascorso un anno da quando, il 15 dicembre 2013, in Sud Sudan la contrapposizione tra il presidente, Salva Kiir, e il suo ex vice, Riek Machar, è degenerata in violenze e scontri, a Juba e non solo. Una crisi “tragica e inaccettabile”, secondo il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che parla di “decine di migliaia di sud sudanesi uccisi”. Il numero uno del Palazzo di Vetro denuncia inoltre che “i leader del Sud Sudan hanno fatto sì che le loro ambizioni personali mettessero a repentaglio il futuro di un'intera nazione”. Il Consiglio di sicurezza Onu ha minacciato sanzioni mirate nei confronti di chi “ostacola il processo di pace”. Secondo il Palazzo di vetro, la metà dei 12 milioni di abitanti ha bisogno di assistenza umanitaria, compresi i due milioni di persone costretti ad abbandonare le proprie case per le violenze. Giada Aquilino ha intervistato suor Elena Balatti, missionaria comboniana, responsabile della radio diocesana di Malakal “Sout al Mahaba-Voce di Carità”:

R. – Si è potuto parlare di guerra fin dagli inizi, perché il 15 dicembre 2013 – è passato un anno da quella data – c’è stato uno scoppio di violenza nella capitale Juba che nel giro di una settimana si è diffuso fino a coinvolgere un terzo del Paese. E la situazione non è ancora risolta. Può essere senz’altro definita una guerra e, in particolare, una guerra civile.

D. – Come definire questo scontro in atto? Politico? Etnico? Il segretario generale dell’Onu dice che i leader sud sudanesi hanno anteposto le loro ambizioni al futuro del Paese: perché?

R. – Questo tipo di scontro è stato anzitutto politico, nel senso che si è trattato chiaramente di una lotta per il potere all’interno del partito al governo. I politici immediatamente sono ricorsi alla forza delle armi e, nel giro di pochi giorni, il conflitto ha assunto una caratteristica di tipo etnico o tribale, perché l’esercito nazionale, seguendo la propria appartenenza etnica, si è diviso. La maggior parte dell’esercito era costituito da elementi di etnia Nuer, che è la stessa etnia dell’ex vicepresidente del Sud Sudan, Riek Machar. E come reazione, purtroppo, ad allearsi per prime al presidente del Sud Sudan, che è di etnia Dinka, sono state persone della sua stessa tribù. L’elemento etnico ha giocato un ruolo estremamente negativo in questo conflitto, lo ha esacerbato tanto che c’erano paure - forse in questo momento un po’ attenuate - che in Sud Sudan si prospettasse uno scenario simile a quello del Rwanda, all’epoca del genocidio. Che i politici, come il segretario generale delle Nazioni Unite ha affermato, si siano lasciati prendere dalle proprie ambizioni e le abbiano anteposte al bene del Paese può essere un’analisi che possiamo decisamente condividere.

D. – Malakal, dove lei si trova, è nell’Alto Nilo: una zona petrolifera importante del Paese. Come è cambiata dall’inizio del conflitto?

R. – Tutto l’Alto Nilo si è militarizzato. Questa situazione ha conseguenze a lungo termine. Per demilitarizzare un’area che è vastissima – è la regione più importante per quanto riguarda il petrolio – ci vorranno anni. Per esempio, quasi tutti gli uomini che si vedono girare nella città di Malakal hanno un’arma, hanno un fucile automatico, molti sono in uniforme. E questo cambiamento sociale è estremamente preoccupante.

D. – Lei si occupa dell’emittente diocesana: la radio della diocesi di Malakal, come anche altre radio cattoliche in questi mesi, ha subito i contraccolpi delle forti tensioni. Cosa è successo a “Radio Voce di Carità”?

R. – La radio della diocesi di Malakal ha cercato di rimanere operativa il più a lungo possibile dall’inizio del conflitto perché, come diceva la gente, sentire la voce della Chiesa rassicurava la popolazione civile in preda ad uno shock terribile, perché questo ciclo di violenza è stato rapidissimo. Il 18 febbraio però, purtroppo, la stazione è stata saccheggiata e sono stati fatti danni notevoli. Le trasmissioni sono state sospese. Stiamo finalmente prendendo degli accordi per le riparazioni più importanti, la prima delle quali è la torre che sostiene il sistema di antenne: è una torre di 72 metri che è stata danneggiata dal fuoco incrociato.

D. – Già quello dell’anno scorso fu un Natale con le violenze. Questo che Natale sarà per la popolazione e quali speranze ci sono per il 2015?

R. – Ieri, c’è stata una preghiera in tutte le chiese cattoliche e, per iniziativa governativa, è stata condotta anche a livello ecumenico. Quello che oggi la gente dice è: “Speriamo che questa preghiera che viene alzata da tutto il Sud Sudan ci porti un Natale di pace”. Perché se quest’anno il Natale può essere celebrato, questo stesso fatto avrà un effetto di guarigione su una popolazione veramente traumatizzata.








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