2014-11-25 13:09:00

Usa, lascia il ministro della Difesa Hagle


Si prospetta un cambio di direzione per l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, dopo le dimissioni del ministro della Difesa, Hagel. Una decisione che sembra essere stata molto caldeggiata dallo stesso capo della Casa Bianca, sull’onda di una profonda insoddisfazione sull’operato dell’ex ministro, in particolare nella gestione delle crisi e della minaccia del cosiddetto Stato islamico. Non si sono fatte attendere le indiscrezioni sui possibili nomi del successore, sul quale però non ci sono per ora certezze. Un commento sul contesto che ha condotto a questo cambio di rotta, Paola Simonetti lo ha chiesto a Dario Fabbri, esperto di Stati Uniti per la rivista di geopolitica "Limes":

R. – Non sono sicurissimo che Hagel abbia sbagliato moltissimo. Mi spiego. Queste sono dimissioni dovute soprattutto a scontri di carattere interno. Sicuramente, l’amministrazione, agli occhi dell’opinione pubblica, è apparsa titubante nell’affrontare la minaccia dello Stato islamico e questo era un qualcosa su cui Obama doveva intervenire. Allo stesso tempo, le dimissioni di Hagel – peraltro dimissioni indotte, non spontanee – sono dovute soprattutto a uno scontro interno che vede il circolo ristretto dei consiglieri di Obama, in una Casa Bianca proverbialmente insulare come la sua, che vuole estendere la propria influenza anche sul Pentagono. Hagel non era mai riuscito a penetrare, appunto, il cerchio ristretto dei collaboratori obamiani. E negli ultimi mesi, soprattutto riguardo alla Siria, Hagel si era schierato contro l’approccio titubante, un po’ timido, dell’amministrazione Obama nei confronti dello Stato islamico, scontrandosi spesso con il Consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice che invece è una delle favorite di Obama. E questo di fatto lo ha posto fuori dai giochi. Allo stesso tempo, non credo che gli sia stato imputato un errore in particolar modo… Non era considerata una persona molto preparata, questo sì, fin dall’inizio. Ma in realtà il suo approccio, questo può sembrarci strano, il suo approccio allo Stato islamico era più coriaceo, era più duro di quanto non fosse ad esempio quello di Obama. E quindi può sembrare singolare che abbia pagato in questa fase in cui Obama cerca di presentarsi almeno all’opinione pubblica come maggiormente assertivo, come maggiormente aggressivo nei confronti dei jihadisti.

D. – Alla luce di quanto hai esaminato, quale svolta però si preannuncia, in quale direzione è immaginabile andrà Obama nella scelta anche di un nuovo ministro?

R. – E’ difficile da dirsi perché in questa fase Obama non è soltanto un’anatra zoppa, ma la sua è una presidenza fallita. Cioè, c’è anatra zoppa quando si perde il controllo del Congresso, che finisce nelle mani dell’altro partito, ma si diventa un presidente fallito, tecnicamente – senza dare un’accezione negativa o positiva al termine – quando anche lo stesso partito del presidente lo abbandona. E’ proprio questa la fase che sta vivendo Obama. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il presidente è di fatto un "lupo solitario", una scheggia impazzita che diventa del tutto imprevedibile, soprattutto in politica estera dove crede di avere le mani più libere rispetto all’interno. E nel momento in cui il Senato è controllato dai repubblicani – Senato che approva, ricordiamo, la nomina del ministro della Difesa – nominare un successore potrebbe essere un iter molto lungo, ci poterebbero volere mesi. In questi mesi rimarrà alla testa del Pentagono, non ci sarà un cambiamento vero e proprio in questa fase.

D. – Ma in quest’ottica, però, nei confronti del terrorismo islamico, che è quello che fa più paura in questo momento, come si pensa si agirà?

R. – Dobbiamo distinguere sempre tra la propaganda e le reali intenzioni di un’amministrazione. Al di là di una propaganda, l’amministrazione Obama non considera lo Stato islamico una minaccia strategica e quindi l’approccio della Casa Bianca nei confronti dello Stato islamico, almeno da un punto di vista concreto, non è destinato ad alterarsi più di tanto. La posizione che Obama deve realmente chiarire è quella nei confronti di Assad, del presidente siriano, che ancora e tuttora ha un alleato, l’Iran – l’Iran, anzi, meglio, è il “patron” di Al Assad. In un momento in cui gli Stati Uniti stanno trattando e continueranno a trattare con l’Iran, intervenire massicciamente in Siria o anche in Iraq vorrebbe dire indebolire l’Iran, se ad esempio l’intervento americano causasse un rovesciamento di Al Assad oppure avesse un altro tipo di conseguenze e di effetti collaterali.








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