2014-11-02 08:45:00

Dopo le tensioni a Gerusalemme, rimane emergenza a Gaza


“Coloro che hanno rinunciato a cercare di fare la pace” non sono “patrioti”. Così l’ex presidente israeliano Shimon Peres, ieri sera a Tel Aviv davanti a 10 mila persone che hanno ricordato Yitzhak Rabin, il premier dello Stato ebraico assassinato 19 anni fa, il 4 novembre 1995. La commemorazione giunge dopo le tensioni di questi giorni a Gerusalemme, a seguito dell'uccisione da parte della polizia dell'attivista palestinese Mutaz Hijazi. Quest'ultimo era sospettato di aver sparato all'ultra nazionalista Yehuda Glick. Nelle ultime ore è stata riaperta la Spianata delle Moschee. Intanto si aggrava la situazione umanitaria a Gaza, sempre più isolata. Dopo la chiusura da parte dell'Egitto del valico di Rafah, Israele ha deciso di bloccare anche Erez e Kerem Shalom. “Una violazione del cessate il fuoco”, secondo Hamas. La Striscia è in ginocchio dopo i 52 giorni di raid compiuti dallo Stato ebraico quest’estate. Sono 500 mila i palestinesi rimasti senza casa. Per capire meglio bisogni e urgenze, a Gaza City si è recato nei giorni scorsi un gruppo dell’Associazione Santina Zucchinelli. Fausta Speranza ha intervistato la volontaria Caterina Piantoni:

R. – Ho visto una tragedia immane: persone obbligate a vivere come in prigione. Al di là dell’aspetto politico, quello lasciamolo stare, è guerra fuori, guerra dentro. Questa gente ha il terrore, vive nelle baracche, non ha acqua, né luce… E’ una vergogna che non so perché non venga fuori sui media: ai più non è nota! Anche io ero la prima a non immaginare una cosa così, onestamente.

D. - Parliamo innanzitutto dell’aspetto sanitario…

R. – Ho visto che c’è disponibilità da parte sia della Croce Rossa, sia degli ospedali dell’Onu. Certo, andando in giro per Gaza, si vedono tantissimi mutilati: è una carneficina. Ce ne sono ovunque: zoppi, senza braccia, senza gambe… Ho notato che molti sono senza arti inferiori e con ferite all’addome.

D. – Che cosa dire dello stato d’animo della popolazione?

R. – Un disastro, atroce. La città è distrutta, non c’è niente. Non si fa fatica a cercare un edificio distrutto: sono tutti distrutti. Non c’è niente. Loro cercano di vivere una vita normale e dignitosa, i bambini vanno a scuola… Gaza City è una città che vive nel massimo caos: tutti cercano di far qualcosa, ma non so se lavorano e non so che tipo di lavoro possano fare. Non ho capito come facciano a vivere perché tutto è fermo. Non lo so. Credo che vivano con aiuti esterni.

D. – E la presenza internazionale? Come media ci siamo dimenticati di Gaza…

R. – Veramente sì ...

D. – Ma le organizzazioni umanitarie continuano a lavorare lì?

R. – Onestamente, non so dirle bene. Ho visto girare macchine dell’Onu, ma una struttura Onu non l’ho vista. Ho visto soltanto un ospedale della Croce Rossa. Ma queste macchine che vanno avanti e indietro a cavallo del confine, cosa facciano non lo so. Non c’è nient’altro. Non c’è un hotel, è chiaro, perché non ci va nessuno; non c’è niente.

D. – E voi dove siete stati a dormire?

R. – Io sono stata ospitata dalle suore di Madre Teresa di Calcutta e mons. Luigi Ginami e altri due partecipanti alla missione sono stati ospitati da padre Hernandez, il parroco di Gaza. E’ l’unico sacerdote che c’è nella Striscia, l’unico prete cristiano: ha 37 anni, è lì da 11 anni. Lì i cristiani sono pochissimi e non escono di casa. Una sera, con padre Hernandez, siamo stati invitati da una famiglia; due componenti della famiglia erano riusciti a ottenere il nullaosta per andarsene, andavano in Belgio, non sarebbero più rientrati: in quel caso danno il permesso di uscire, altrimenti no. Dai 16 ai 36 anni non si può uscire da quella “prigione”. A meno che non sia una cosa definitiva. Mi sembra una prigione a tutti gli effetti.








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