2014-10-29 14:00:00

Insediamenti ebraici a Gerusalemme. Padre Cipollone: serve pace


Riunione d’urgenza oggi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sull’espansione coloniale israeliana. E’ stata decisa dopo l’annuncio di altre mille case per coloni che saranno costruite in due insediamenti di Gerusalemme, Har Homa e Ramat Shlomo. Di fronte all’incessante espansione coloniale, Bruxelles ha già più volte avvertito Tel Aviv del pericolo che tali azioni unilaterali rappresentino per i rapporti con l’Europa, e Washington ha più volte parlato di atti “incompatibili con il processo di pace”. Fausta Speranza ha intervistato padre Giulio Cipollone, docente di Storia medievale all’Università Gregoriana, che riflette sullo spessore storico e spirituale della città di Gerusalemme:

R. – Credo che Gerusalemme si inquadri correttamente proprio nel suo fatto di valore etimologico della parola. Da un lato, “che io possa vedere”, e dall’altro, “la pace”. E cioè: possiamo vedere la pace. Ecco, Gerusalemme è il luogo dell’attesa, dello sforzo comune per raggiungere la pace. Evidentemente, a livello di storia, questa città è diventata santa per i tre monoteismi, per gli ebrei, per i cristiani e per i musulmani. Io direi di incominciare a considerare Gerusalemme non “tre volte santa” ma “una volta santa”. “Una volta santa” per ognuno che cerca la pace, che vuole vedere la pace. E in questo contesto, Gerusalemme rimane da un lato utopia, da un lato certezza. E’ un punto dove guardare. Ancora nella tradizione occidentale diciamo: “Dall’Oriente venne la luce”. Si può configurare Gerusalemme come luogo da dove viene la luce.

D. – Quindi, quando poi si fa un discorso politico intorno a Gerusalemme, che cosa si dovrebbe considerare?

R. – Io credo che la storia di Gerusalemme, se la consideriamo soltanto da 2000 anni, da Cristo in poi, o da prima, o dal momento dell’arrivo dell’islam, con i vari passaggi di potere, rischia di essere smembrata nella sua unità di città del mondo intero, di ogni credente, di ognuno che fa l’esperienza della shekhinah, cioè della presenza di Dio. Io penso che dovremmo uscire dal mondo delle religioni ed entrare nel mondo della fede. Le religioni sono un fatto culturale, la fede cambia il cuore. Ora, in nome dello stesso Dio, mi chiedo: come possiamo oggi legittimare ancora ulteriori ricorsi alla forza, visto che in Dio non c’è intolleranza? L’intolleranza è un fatto umano. Si può citare Isaia, possiamo citare Amos: quanti sogni che già vediamo nella Bibbia, ma quasi da raggiungere con le mani, un mondo dove l’egiziano, l’assiro, l’Oriente e l’Occidente si incontrano in un solo abbraccio, perché tutti figli dello stesso Dio... E in questo contesto, la grande esperienza di Abramo, che fonda la grandezza assoluta di Gerusalemme, dovrebbe scagionare da ogni ricorso alla forza, perché - ho avuto modo di descriverlo e di pubblicarlo da qualche parte - ognuno che uccide è un omicida: la differenza non la dà il colore dell’arma, ma la mano di chi impugna l’arma. Allora, se noi facciamo l’esperienza della "shekhinah" di Dio, diventiamo assolutamente incapaci di violenza perché in Dio non c’è intolleranza, sia Egli chiamato con il nome di El Shaddai Elohim, con il nome di Cristo, o con il nome di Allah. L’intolleranza è un fatto semplicemente umano, per le religioni: va sconfessato dalla fede.








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