2014-09-05 13:05:00

Rottura del "patto educativo”: commento alle parole del Papa


Il valore dell’educazione in un mondo in guerra: ne ha parlato il Papa nell’incontro con esponenti della rete educativa mondiale Scholas occurrentes. Francesco ai giovani ha chiesto di volare nel futuro senza dimenticare le radici di saggezza degli anziani. Alla società ha lanciato il forte appello a non lasciare soli i bambini e a rafforzare i legami sociali, familiari e personali. Citando il caso di genitori che, invece di collaborare con gli insegnanti, di fronte a un giusto rimprovero ai loro figli, si affrettano a denunciare i docenti, Papa Francesco ha affermato che “si è rotto il patto educativo”. Su questa espressione e sui rischi messi in luce dal Papa, riflette, nell’intervista di Fausta Speranza il pedagogista Italo Bassotto:

R. – Si è rotto quel rapporto di qualità educativa, di desiderio di educare, di crescere le giovani generazioni, che era tipico della generazione precedente. La realtà del mondo preindustriale era una realtà nella quale la responsabilità educativa era facilmente diffusa e diffondibile e il controllo sociale non lo facevano solo i genitori e le forze dell’ordine ma lo facevano tutti. Cioè, un bambino, un ragazzino, se si comportava male in paese, lo sapevano tutti dopo mezz’ora e i genitori erano i primi a convenire che questo era opportuno. Oggi, invece no. Oggi si è rafforzato il sistema delle barriere reciproche. C’è stato un sociologo cattolico, De Rita, che ha parlato di “società coriandolo”: una società nella quale ognuno, così, goffamente, vuole il suo piccolo ruolo e status però non cerca mai il contatto con gli altri, non fa mai gruppo. Figuriamoci quando si tratta di far gruppo intorno a un tema come quello dell’educazione delle giovani generazioni!

D. – La difficoltà è a collaborare tra diversi ruoli ma la difficoltà è anche a definire il passo precedente, i singoli ruoli, quindi i genitori, scuola o altre agenzie educative…

R. – Certo, sì. La complessità delle relazioni tra adulti e tra adulti e minori, così come sono venute ricostruendosi non ha ancora generato un equilibrio, non siamo ancora in grado di capire come integrarci fra di noi e condividere insieme un traguardo, che è quello di far crescere i giovani secondo rettitudine e saggezza. L’adulto, in questo momento, è quanto di più incerto e malfermo si possa immaginare, anche se è in salute mentale oltre che fisica.

D. - Viene in mente che oltre a questa ansia di difendere il figlio rimproverato senza valutare se il rimprovero è giusto, opportuno, utile… c’è una grande paura, un’inquietudine...

R. – Direi proprio paura. Questo tema del dialogo scuola-famiglia è un tema che viene sollecitato continuamente dagli insegnanti, soprattutto delle scuole superiori, perché è lì il punto più difficile. Lo è anche nella scuola primaria, ma nella scuola secondaria, quindi nell’adolescenza, pre-adolescenza e adolescenza del giovane è ancora più complesso. Devo dire comunque che questa paura ha due poli di manifestazione. Si manifesta nelle famiglie più in difficoltà, più marginali dal punto di vista socio-economico. Ed è sicuramente una manifestazione di paura che si trasforma in ambizione, cioè a dire: se mio figlio me lo trattano adesso così a scuola, chissà cosa succederà poi nella vita, lo metteranno un gradino sotto gli altri che sono più avanti… L’aggressione all’insegnante nasce dalla paura di vedere nel proprio figlio la marginalità che vive la famiglia. Nelle famiglie, invece, di stato sociale, di condizioni sociali elevate, c’è la paura di perdere il proprio privilegio: in mancanza di sistemi di riferimento di valori, c’è semplicemente la paura del futuro. In tutti e due i casi è una paura che guarda indietro, non guarda avanti. Questo è il nostro problema: non abbiamo noi adulti la capacità di far desiderare ai nostri ragazzi di guardare avanti.

D. - Un altro punto è quello dell’individualismo. Viene in mente che è molto bello pensare di educare i propri figli, con responsabilità primaria di genitore, ma con la collaborazione degli insegnanti, anche dei catechisti, anche di insegnanti di attività sportive, che possono essere un veicolo… E’ bella questa collaborazione però, invece, si fugge nell’individualismo: a mio figlio ci penso solo io. E’ così?

R. – Sì, ognuno è una piccola oasi personale dove esaurisce tutto il suo mondo. Se la società recupera la sua sensibilità educativa, che poi si traduce in voglia di insegnare ai ragazzi che c’è un futuro e che è possibile un progetto di futuro, probabilmente usciamo da questo isolamento. Se non facciamo questo, torniamo ad essere ognuno chiuso in se stesso perché temiamo che l’altro ci aggredisca e ci tolga quello spazio che noi pensavamo per i nostri figli. Mentre, invece, se i figli imparano con i loro genitori a stare insieme, lo spazio, anziché ridursi, si allarga, ma bisogna fare esperienza di questo.

D. – Forse è molto più facile, molto più immediato difenderli e basta, piuttosto che spendere tempo per capire le ragioni degli insegnanti, spiegarle ai propri figli…

R. – Sì, ma non credo che sia tanto il tempo in senso fisico, penso che sia il tempo in senso psicologico come disponibilità: il silenzio, l’ascolto, la lentezza, di cui parlava la Levi Montalcini che faceva l’elogio della lentezza in questo senso… Dunque serve una forte intensità di ascolto. Ma se noi non siamo capaci di ascoltare noi stessi, come facciamo ad ascoltare gli altri? E gli adulti sono, oggi, in forte difficoltà, fanno fatica ad avere una vita intima, una vita interiore. Siamo sempre proiettati fuori.








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