2014-08-30 12:58:00

Jihad e propaganda. L'esperto: l'Is abile a manipolare i media


Non si arresta la battaglia in Siria, Iraq e Libia contro i gruppi jihadisti del sedicente Stato Islamico. Senza sosta, in tutto il mondo, il reclutamento dei terroristi, mentre sui media continuano rimbalzare le immagini choc della propaganda jihadista. Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Marco Lombardi, professore di Sociologia e comunicazione presso l’Università Cattolica e direttore del centro per lo studio del terrorismo dell’ateneo milanese:

R. – Noi dobbiamo partire da un presupposto: il terrorismo è comunicazione, ma è molto chiaro. Se noi vogliamo fare paura, dobbiamo minacciare. E questo è un punto fondamentale che il terrorismo conosce bene e da sempre utilizza le strategie della comunicazione come strategie di guerra che si muovono su un campo diverso da quello di battaglia.

D. – La comunicazione dello Stato Islamico, o Is, o Isis, o Isil – come è stato chiamato in questi mesi – è una comunicazione professionale. Questo sottintende un aiuto consistente dal punto di vista economico e dal punto di vista strettamente professionale, secondo lei? Oppure no?

D. – Distinguiamo. Indubbiamente hanno a disposizione, dal punto di vista professionale, grandi “scale”, grandi competenze. Però, in fin dei conti, non sono competenze costose, così come ormai non lo sono neanche le tecnologie della comunicazione costose. E sicuramente, come ci sono combattenti capaci sul campo, ci sono combattenti formati nelle nostre università – molto probabilmente – che si preoccupano di fare comunicazione in Is per Is. E questo è un aspetto. Quindi, non servono tanti soldi, ma comunque Is è l’organizzazione che ha più soldi in questo momento. E’ difficile stimare, ma ci sono stime che si attestano attorno ai 5-6-7 milioni di dollari al giorno, come entrate. Da dove? Bè, dal petrolio, primo aspetto: Is controlla buona parte di Siria e Iraq che ha grandi pozzi di petrolio. Oggi viene venduto sottocosto: 25-30 dollari a barile contro i 100. E la prima grande domanda che faccio a tutti è: ma se viene venduta sottocosto, chi lo compra? E questa è una grande domanda, perché non vorrei che quel petrolio girasse attorno a canali strani che poi lo portino comunque alle nostre pompe di benzina: perché staremmo finanziando Is. E questo è un aspetto. Poi, ha conquistato una parte di Iraq: dalla banca centrale di Mosul conquistata sono entrate diverse centinaia di milioni di dollari nelle tasche di Is. E infine, wahabiti arabi sono la testa del serpente da sempre. Soldi, da quelle parti ne arrivano! Ma anche le collocazioni strane di alcuni Paesi del Golfo, come il Qatar in particolar modo: il sostegno che questo Paese sta dando a tutti i movimenti, dal Nordafrica ai mediorientali, è altamente problematico. Sicuramente, ci sono connessioni poco pulite. Dipende da che punto di vista si guardano, ma diciamo molto interessate al finanziamento di Is da parte di istituti nazionali.

D. – Più volte lei ha ribadito che i media occidentali fanno come da cassa di risonanza a queste strategie di comunicazione dei jihadisti: in che senso?

R. – Assolutamente sì, perché il terrorismo “fa cassetta”, rende. Vuol dire che il terrorismo rende comunicativamente e l’esempio più chiaro torna indietro di un po’ di anni, a Osama bin Laden, quando ricordiamoci che spesso venivano annunciati suoi proclami con dei trailer – quindi, con delle “promozioni” – di 20 secondi… Queste promozioni di 20 secondi occupavano i giornali e i media per due giorni, e poi il vero discorso di Osama non compariva. Ma per due giorni, tutto il mondo occidentale era in allarme, in allerta, bloccato per quello che Osama avrebbe potuto dire. Bastava la minaccia, senza realizzare di per sé l’evento. Questo il terrorismo lo sa: lo sa molto bene. Is – oggi la più problematica e più pericolosa organizzazione terroristica che ci troviamo ad affrontare – usa la comunicazione in maniera perfetta per i suoi obiettivi.

D. – Come leggere l’orribile pratica delle decapitazioni che vengono riproiettate in ogni media, compresi i social network?

R. – Le decapitazioni – ricordiamo Berg, ricordiamo Pearl – non sono una novità ed entrano nella strategia comunicativa. Che cosa rappresentano? Una minaccia. E’ una minaccia che Is fa ai suoi nemici. Sono trasmesse con filmati molto semplici e brutali, proprio quelli che vanno a occupare il pubblico più vasto dei media. Ma accanto a questo, infatti, ci sono altri filoni di comunicazione. Abbiamo citato i social: nei social troviamo i profili dei combattenti. Questa è una comunicazione virale: guardatemi, come sono bravo, bello, con una K47, ad ammazzare la gente! Seguitemi! E’ una comunicazione che promuove imitatori per andare a combattere nell’Is. Accanto, c’è il terzo filone della comunicazione: Is, da un mese, ha incominciato a produrre brochure e volantini bellissimi per far vedere come sia bello andare a vivere nello Stato Islamico. Non ci sono fucili: ci sono campi di grano, fiumi che scorrono e panetterie che sfornano pani fumanti. Servono ad attrarre le famiglie. Sono tre linee comunicative in parallelo, strategicamente organizzate, che Is sta utilizzando per organizzare al meglio e stabilizzare al meglio il suo “califfato”.

D. – Lei ha ribadito: non è lecito pubblicare tutto, perché così si offre il fianco, si funge da casse di risonanza…

R. – La comunicazione ha sempre un effetto. Se partiamo da questo presupposto, oggi il mondo chiede responsabilità a tutti. E allora, non possiamo in nome di un principio secondo cui tutto può essere pubblicato e tutto può essere detto, non possiamo non assumerci come media la responsabilità degli effetti della nostra comunicazione. Torniamo all’esempio dei proclami e degli annunci di cose che non vengono fatte. Bene. Ci assumiamo la responsabilità di annunciare cose – cioè minacce – che non verranno fatte, degli effetti concreti che questi comunque hanno. I media fanno parte del gioco, vengono spesso utilizzati – i media occidentali – per le loro caratteristiche, dalle strategie mediatiche del terrorismo.

D. – Secondo lei, qual è un modo corretto per comunicare questa realtà, salvaguardando il diritto di cronaca o il dovere di cronaca nel raccontare situazioni limite, come decapitazioni e guerre?

R. – Bisogna da una parte rispolverare in maniera decisa l’etica professionale, che distingue il vero giornalista dal comunicatore e i media che fanno giornalismo. E dall’altra, avviare forme di collaborazione. I media sono istituzioni centrali di un qualunque Paese e di uno Stato. Le istituzioni di governo insieme con le istituzioni che comunicano ai media fanno parte dello stesso tavolo di governo, oggi, nel mondo globale. E insieme devono trovare soluzioni che tutelino sicurezza, cultura e vita del nostro Paese.








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