2014-08-10 09:26:00

Medio Oriente: le parti valutano una tregua di 72 ore


Hamas e Israele avrrebbero accettato una nuova tregua di 72 ore proposta nei negoziati al  Cairo. Lo riferiscono i media israeliani. In mattinata un undicenne palestinese è stato ucciso nel campo profughi Al-Fawwar a Hebron, in Cisgiordania.

Intanto, un appello congiunto per una pace duratura in Palestina e Israele è stato lanciato dalle Ong italiane che, in un comunicato, chiedono soprattutto la protezione della popolazione civile e la fine del blocco di Gaza. Le operazioni militari, si legge, hanno fallito nell’intento di portare giustizia, pace e sicurezza per entrambi i popoli, palestinese e israeliano. Una soluzione però, non può passare per il ritorno allo status quo, scrivono le organizzazioni che sollecitano cambiamenti radicali affinché si proteggano le persone dalla violenza e affinché i loro diritti e bisogni siano rispettati. Francesca Sabatinelli ha intervistato Raffaele K. Salinari, presidente di Terres des Hommes:

R. – Perché Gaza non può avere un porto? Perché Gaza non può avere un aeroporto internazionale, anche sotto l’egida dell’Onu? Perché i cittadini di Gaza non possono uscire e andare dall’altra parte, in Cisgiordania, a lavorare, o andare in Israele a lavorare? Perché Gaza non può esportare? Queste sono le richieste che permetterebbero veramente una pace duratura. A quel punto, infatti, un cittadino – e io insisto su questo – che può fare una vita normale, non ha neanche bisogno di appoggiarsi agli estremismi. La parte meno dialogante di Hamas e la parte attualmente al governo, l’ultra destra israeliana, condividono gli stessi obiettivi, che sono quelli di una guerra permanente. Quindi ogni tre, quattro anni si fanno sempre queste operazioni militari, sempre con migliaia di morti, che non hanno risolto assolutamente nulla: né la sicurezza degli israeliani, né la vita quotidiana dei cittadini di Gaza.

D. – Tutto questo, però, come diceva pocanzi, deve anche fare i conti con la necessità di garantire la sicurezza degli israeliani?

R. – Ripeto: bisogna togliere l’acqua al pesce. Il pesce del terrorismo nuota nelle acque torbide della mancanza di diritti umani. Questa è una cosa che sanno tutti. E’ chiaro che un bambino che nasce con di fronte agli occhi il papà e la mamma ammazzati, che non è mai potuto andare a scuola, se viene chiamato a farsi esplodere, lo fa. Un bambino invece che è andato a scuola, un bambino che ha avuto possibilità di studiare, di avere un futuro, non aderisce ai fanatismi. Allora, ad un certo punto, il più forte, in questo caso Israele, che ha delle grosse responsabilità sia tattiche che strategiche, il più coraggioso, deve fare il primo passo, deve fare la pace, altrimenti è chiaro che non se ne esce. Allora la prospettiva o è quella attuale, di una guerra permanente, dove ci perdono veramente tutti, israeliani compresi, oppure ad un certo punto si dice: vediamo quanto dura il governo di unità nazionale; appoggiamo anche Abu Mazen, che è stato per tutte le aperture che ha fatto in questi anni semplicemente schiaffeggiato, dicendo ‘vogliamo di più, vogliamo di più’, ben sapendo che di più lui non può dare, e poi si va a vedere. La pace si fa col nemico e la fa chi è più forte. In questo caso, è chiaro che c’è una asimmetria gigantesca tra quello che è il potenziale di Hamas e il potenziale di Israele. Israele dovrebbe avere questa responsabilità, ovviamente spalleggiata anche dalla comunità internazionale, di sostenere tra l’altro la società civile palestinese, quella moderata, che non è fanatica; e ce ne sono tanti, che non hanno nessuna voglia di vivere in uno stato di guerra permanente. E in questo direi che i cristiani possono svolgere una mediazione ancora più significativa, proprio perché appartengono ad un orizzonte culturale, dove la pace, la convivenza e i diritti umani sono connaturati alla loro visione del mondo.

D. – Nel vostro appello, interloquite direttamente con il governo italiano e con le istituzioni dell’Unione Europea, perché si adoperino in qualche modo. Eppure, i fatti ci dicono che la politica della comunità internazionale, ha fallito su tutti i fronti...

R. – Sì, lì c’è un problema di non aver capito che il mondo sta cambiando molto rapidamente in quella zona. Non c’è più la situazione di appena cinque, dieci, quindi anni fa; è tutto completamente cambiato. Sono molto preoccupato per l’Europa, ma anche per gli Stati Uniti, che credono di avere un ruolo di arbitri di vicende che, ormai, non siamo più in grado di giocare da soli. Chi sta diventando importante ormai negli anni è sicuramente l’Iran, ovviamente dietro c’è anche la Cina, c’è tutto il contenzioso con la Russia. E c’è l’emergenza di fanatismi ancora peggiori di quelli di Al Qaeda, come l’esercito del Levante della Siria libera, che proprio in queste ore ulteriormente rivendica califfati e sfondamenti nei confronti dell’Iraq. Obama si è dovuto piegare, di fatto, a dei bombardamenti, che non saranno una parentesi, perché dovranno durare. Tutto questo, perché c’è una gigantesca mancanza di visione, a partire dall’Europa. Noi dobbiamo negoziare con le potenze regionali. Non possiamo stare dietro a quello che dicono gli americani, che a loro volta hanno ormai – detto con molta chiarezza – un interesse molto minore in quella zona del mondo, da quando progressivamente stanno raggiungendo anche la loro autosufficienza energetica. Allora l’Europa non può essere l’ultimo vassallo degli Stati Uniti, ma dovrebbe essere il primo partner delle nuove potenze regionali, con le quali è imprescindibile il dialogo, proprio per risolvere qualcosa. Ci vuole un cambio radicale di politica estera dell’Europa, che noi Ong auspichiamo e che non vediamo.








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