2014-08-06 14:47:00

Iraq, Giornata di preghiera per la pace. Testimonianza da Karakosh


In Iraq, centinaia di donne e di ragazze, tutte della minoranza religiosa yazida, sarebbero state fatte prigioniere dai miliziani dello Stato islamico. Il Ministero degli Affari femminili iracheno lancia l’allarme sul grave rischio di riduzione in schiavitù corso da queste donne della città di Sinjar, nel nordovest, conquistata dagli jihadisti domenica scorsa. Sono migliaia gli yazidi che vivono assediati, senza acqua né cibo, e decine di bambini, è la denuncia, sarebbero già morti di sete. Nella ricorrenza della Trasfigurazione, si celebra la Giornata di preghiera per la pace in Iraq, promossa da "Aiuto alla Chiesa che Soffre" assieme al Patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Sako, mentre continuano ad arrivare notizie della fuga di migliaia di cristiani - già scappati dall’offensiva jihadista contro Mosul, nel nord del Paese - e ora di nuovo in cerca di riparo, dopo l’attacco a tre villaggi. Padre Vito Magno ha intervistato padre Jalal Yako, superiore della comunità dei Padri Rogazionisti, impegnata nell’aiuto ai profughi di Karakosh, a circa trenta chilometri da Mosul:

R. – Hanno raccontato il loro dramma, come sono stati cacciati via e lasciati quasi nudi. All’una di notte sono venuti a bussare, a scrivere sulle loro case una "N", “Nazareni”, un’offesa per i cristiani. Una ragazza li ha rimproverati senza paura ed è stata quindi distesa a terra perché le venisse tagliata la testa. Poi è successo qualcosa ed è fuggita.

D. – Oltre alla Chiesa, chi pensa a questi profughi?

R. – Ci sono delle organizzazioni locali e anche lo Stato iracheno. Grazie a Dio non manca da mangiare, ma hanno perso tutto, dopo la fatica di anni per vivere degnamente. Sono comunque rimasti fedeli alla loro fede e non hanno avuto paura di dire: “Noi rimaniamo cristiani, anche se ci uccidete”.

D. – Per quali necessità primarie date e chiedete aiuto?

R. – Per l’acqua, la corrente e, prima di tutto, per la tranquillità. La gente è spaventata, non sa cosa fare. Non c’è lo Stato, non c’è l’esercito, non ci sono uffici che funzionino e non sappiamo cosa succederà domani.

D. – A Karakosh, lei e i suoi confratelli rogazionisti, riuscite a svolgere anche attività pastorali?

R. – Sì, qui noi abbiamo un “salottino” che contiene quasi 150 persone. Lo abbiamo sistemato bene con i ragazzi ed è diventato una chiesa. Qui, celebriamo la Messa due volte a settimana. Abbiamo fatto il mese di maggio, il Sacro Cuore, l’incontro con le famiglie. Aiutiamo soprattutto i ragazzi nel doposcuola. C’è un gruppo di giovani che vogliono aiutarci a dare una mano.

D. – Che altro significa vivere in mezzo a cristiani che sono stati costretti a lasciare la loro terra?

R. – Vivere la loro condizione: vivere la sete, vivere la mancanza della corrente, vivere la fatica, il caldo... Vivere le loro sofferenze.

D. – Quando due anni fa lei è arrivato a Karakosh, quante persone c’erano nel campo profughi?

R. – 1.800. Tanti sono quelli che sono partiti e sono andati all’estero, vendendo tutto quello che avevano. Poi, ci sono altri che sono venuti, non solo profughi, ma anche famiglie bisognose che non hanno niente.

D. – E oggi quanti sono?

R. – Il numero oscilla più o meno tra 1.600 e 1.800.

D. – Da missionario a Karakosh c’è un invito che si sente di fare?

R. – Che le persone che hanno una coscienza possano parlare e denunciare questi avvenimenti che sono gravi contro l’umanità. Non bisogna restare in silenzio. Bisogna pregare e denunciare attraverso le organizzazioni mondiali.








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