2014-08-02 17:58:00

Gaza, no ai colloqui al Cairo. Si cerca il soldato israeliano


Sono almeno 35 i palestinesi rimasti uccisi stamattina nel bombardamento israeliano su Rafah, mentre sono oltre cento da ieri, dopo la rottura della tregua umanitaria durata solo poco più di un’ora. Israele cerca il soldato scomparso, mentre si continua la conta dei morti dall’inizio dell’offensiva: in 26 giorni sarebbero morti 1.650 palestinesi, in massima parte civili. Oltre 60 le vittime da parte israeliana, in maggioranza soldati. Francesca Sabatinelli:

Forse rapito, forse rimasto ucciso nei combattimenti. La sorte del soldato Hadar Goldin è ancora sconosciuta, con scambi di accuse tra Israele e Hamas mentre la tregua umanitaria è fallita e sono ripresi i raid su Rafah e il lancio di razzi da Gaza. Hamas nega il sequestro: la scomparsa di Goldin, secondo la dirigenza del movimento palestinese, è servita da scusa agli israeliani per intensificare gli attacchi che starebbero per condurre, secondo i portavoce militari dello Stato ebraico, alla totale distruzione dei tunnel nella Striscia di Gaza. Ma gli israeliani sono convinti che a prelevare il 23enne siano stati proprio i miliziani. A questo momento sono oltre 1.600 i morti palestinesi contati dall’8 luglio. Intanto, fonti del governo israeliano fanno sapere che non sarà inviata alcuna delegazione al Cairo per nuovi colloqui sul cessate il fuoco perché – si afferma – “Hamas non è interessato ad alcun accordo”. Nella capitale egiziana, invece, è attesa la delegazione palestinese. L’iniziativa egiziana è l’unica via d’uscita per fermare il conflitto e bloccare l’emorragia di sangue palestinese, ha dichiarato il presidente egiziano Al Sissi, che ha ribadito la necessità di dare uno Stato ai palestinesi. E dal Cairo, dove ha incontrato il premier italiano, ha poi lanciato un appello comune con Renzi per la “distensione e il cessate il fuoco a Gaza”.

Naomi e Issa, lei israeliana di una località del Negev, lui palestinese di Betlemme, Cisgiordania. In comune hanno un conflitto e l’esperienza italiana presso l’Associazione Rondine Cittadella della Pace, di Arezzo, uno studentato internazionale, dove giovani provenienti da Paesi in conflitto vivono insieme, imparano a conoscersi, a capire le ragioni dell’altro, e a volersi bene. Naomi, 25 anni, è ancora in Italia, tra pochi giorni rientrerà in Israele dove ha la famiglia. E’ fiera di essere israeliana, ma triste e arrabbiata per l’orrore che arriva da Gaza. Francesca Sabatinelli l’ha intervistata:

R. – Io sono molto triste, adesso, quando vedo le notizie, perché la mia famiglia sta vivendo tutto questo, perché i miei fratelli sono entrati ora nell’esercito perché è obbligatorio per tutti. Sono molto triste però qua, da lontano, ho l’opportunità di vedere altri punti di vista. Vedo come la pensano gli italiani, vedo come la pensano i miei amici palestinesi o i miei amici in generale, in tutto il mondo, vedono il conflitto.

D. – Questo che cosa ti ha fatto capire? In che modo adesso lo vedi, questo conflitto?

R. – In modo più critico, perché quando si vive all’interno di una situazione, è molto difficile giudicare. Io ho sempre provato, anche quando ero in Israele, a essere obiettiva, a vedere tutti e due i lati, ma adesso è più facile: da fuori si vede di più, si vedono le notizie da tutte e due le parti, si vede la verità, si vede la critica che anche da fuori si fa a Israele, che è giusta, è importante!

D. – Il fatto che tu sia israeliana qui in Italia ti ha fatto scontrare con dei pregiudizi?

R. – Anche questo, sì. Perché tanti vedono negli israeliani il governo di Israele. E’ molto difficile, ed è molto importante per me, anche, far capire agli italiani che giudicano. La prima cosa che fanno è cambiare l’espressione: sono tristi quando sentono che sono israeliana, e allora devo spiegare che non tutti vogliamo uccidere la gente e che vogliamo la pace, è importante spiegare questo, anche agli italiani. Io sono pacifista, quando non c’è la guerra non c’è bisogno di definirsi pacifisti o meno, ma quando vivi questo, quando hai l’esperienza del servizio militare, sì, io ho capito che sono pacifista e che la soluzione violenta non funzionerà mai. Quando inizi il servizio militare, la prima cosa che capisci è che abbiamo bisogno dell’esercito perché abbiamo nemici e io ho iniziato a chiedere, e avevo 18 anni: “Ma, perché ho nemici? Nessuno mi ha fatto del male: perché allora devono essere miei nemici, perché dobbiamo rispondere con la forza e non parlando?”. Per me è stata la prima volta che ho capito che questo Paese funziona così. Noi giovani dobbiamo dire quello che pensiamo, dobbiamo dire che non funziona con la violenza. I soldati sono ragazzi, sono ragazzi che hanno appena finito la scuola superiore, sono ragazzi che sono cresciuti in questa situazione che non è cambiata da 60 anni almeno, conoscono solo questo! E’ molto, molto, difficile avere un pensiero critico ad un livello così alto quando vivi questa situazione. Sono ragazzi che fanno cose che sono obbligati a fare. Capisco che il mondo veda i soldati come i responsabili, ma voglio dire che i responsabili sono i capi, quelli che mandano questi soldati, perché sono ragazzini di 18 anni. Cosa ne sai, quando hai 18 anni?

D. – Le tue posizioni e le tue idee sono condivise dalla tua famiglia?

R. – Io provo, ma non sempre siamo d’accordo. Loro vivono là e capiscono, ma non siamo arrivati al punto che sono riuscita a convincere qualcuno a cambiare. Piano piano spero di cambiare anche le idee delle persone.

D. – L’Associazione Rondine Cittadella della Pace ti ha dato l’opportunità di stringere la mano, di conoscere, di parlare con ragazzi palestinesi, con chi che nel tuo Paese è considerato il nemico …

R. – Mi ha dato davvero l’opportunità di ascoltare, di conoscere la storia come loro la imparano. Perché noi, in Israele, non sappiamo come loro imparano e quando io non so cosa loro pensano, come posso capire? Per me, Rondine è stata questa opportunità: di avere fiducia, di far vedere ai ragazzi palestinesi che io sono una persona e non sono un soldato, perché loro conoscono solo i soldati.

D. – In Israele ci sono persone che la pensano come te, che vogliono la pace?

R. – Sicuramente, sicuramente. Nella mia famiglia mi ascoltano, mi capiscono, ho amici e ci sono organizzazioni che raccolgono le testimonianze di ragazzi, di soldati. E’ importante che parliamo, è importante che giudichiamo. Ci sono anche parlamentari, deputati che sono contrari e parlano. Dobbiamo alzare la voce perché da fuori non si vedono queste cose. Certo che è un momento difficile, anche quando muoiono soldati israeliani, ma ce ne sono, ce ne sono di persone che criticano, che dicono che noi dobbiamo fermare questa guerra, che dobbiamo interrompere la violenza. In questo momento non rappresento Israele, ma rappresento me stessa: io sono triste, ma ci sono tanti israeliani che sono tristi di questa situazione. Non dico che vogliamo la pace, che è una parola molto grande, però vogliamo il dialogo, vogliamo fermare le violenze perché è possibile vivere insieme e io ho fatto questo a Rondine. Possiamo essere amici, siamo forti, quando siamo insieme.

Issa ha 33 anni, è cristiano, vive a Betlemme dopo aver trascorso anche lui un periodo in Italia. Come tutti i palestinesi vive chiuso dal muro, dai check point  e vive il dolore della violenza sui suoi fratelli a Gaza. Eppure, non ha mai ceduto all’odio. Ascoltiamolo intervistato da Francesca Sabatinelli

R. – Il mio cuore dice che esiste sempre il contrario dell’odio. Non posso odiare nessuno, perché siamo tutti esseri umani. Così sono cresciuto. Ma da quello che vediamo ogni giorno al telegiornale, in tv, da quello che sentiamo, sembra che ormai si sia persa la speranza di amare, di rispettare il prossimo. Senza questa speranza, però, non si può vivere. Rimaniamo quindi con questa speranza e viviamo sempre con questa speranza: di avere un futuro migliore, di avere uno Stato libero palestinese, che viva accanto ai suoi vicini liberamente e pacificamente.

D. – Gli israeliani sono il nemico?

R. – Dipende da dove sono. In Italia, a Rondine Cittadella della Pace, gli israeliani non erano nemici, anzi erano amici con cui ho condiviso la vita quotidiana. Di qua, invece, è difficile considerare gli israeliani amici, per fatti semplici come il muro, che limita la possibilità di vederci, di comunicare, di sentirci. Io sono palestinese e non posso andare in Israele senza il permesso, che viene rilasciato da Israele molto difficilmente. Per questo con i miei contatti israeliani, che avevo conosciuto in Italia, ci sentiamo, ma molto difficilmente. E per questo dico che l’israeliano è amico o nemico a seconda di dove ci si trova. Sono pacifista e non posso cambiare, anche perché di questa violenza ne ho vista tanta. Sono sempre più convinto che si possa raggiungere una soluzione, una soluzione pacifica, ma non so quando. So che tutti e due i popoli devono essere convinti dell’idea di dover vivere insieme pacificamente.

D. – I tuoi amici, però, la tua famiglia, gli altri palestinesi, cosa ti rispondono?

R. – La maggioranza dice che non si può fare la pace con questa violenza. A volte do loro ragione, anche perché in questi ultimi giorni ci sono stati più di 1600 morti palestinesi a Gaza e più di 8 mila feriti. Più di un terzo dei morti sono donne e bambini. Con tutte queste statistiche, quando mi dicono che la pace è impossibile, a volte gli credo. Insisto comunque sulla mia idea che si possa arrivare alla pace, ma con la volontà vera di volerla fare, da parte di tutti e due i popoli, dei politici stessi di tutte e due le parti.

D. – In questi giorni a Betlemme che cosa sta succedendo?

D. – A Betlemme ci sono sempre manifestazioni contro i checkpoint, sono pacifiche, sono “con i sassi”, come siamo abituati noi palestinesi, e ci sono manifestazioni di solidarietà a favore di Gaza. La situazione è più calma sicuramente che a Gaza, ma anche in Cisgiordania, a Betlemme, ci sono stati morti. E’ una cosa molto triste. Papa Giovanni Paolo II, quando è arrivato qua, nel marzo del 2000, prima della seconda Intifada, disse che la Terra Santa aveva bisogno di ponti e non di muri. Io sottolineo questa frase, perché abbiamo davvero bisogno di ponti, di comunicare di più, di sentirci e di sapere che l’altro è un altro essere umano, anche se non sempre. Ci sono, infatti, persone disumane, come abbiamo visto in questi ultimi giorni, ma da tutte e due le parti ci sono anche esseri umani e abbiamo bisogno di trovarci, di metterci insieme e di arrivare ad una soluzione. Speriamo che la preghiera che ha fatto Papa Francesco davanti al muro il 25 maggio arrivi in cielo e non ci sia più questo muro.

 








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