2014-07-29 09:30:00

Il sacrificio di Chinnici ricordato in un incontro a Palermo


“Ragiona con la tua testa, fai le tue scelte, assumiti le tue responsabilità”. E’ l’insegnamento che Caterina Chinnici ricorda più di frequente tra i consigli preziosi che il suo papà ha impartito a lei e ai suoi fratelli Elvira e Giovanni. Rocco Chinnici credeva profondamente in quelle parole, da uomo e da magistrato, al punto che il 29 luglio del 1983 una Fiat 126 verde, imbottita di esplosivo dalla mafia, pose fine all’impegno dell’allora consigliere dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo e alle vite di due dei tre carabinieri di scorta, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e del portiere dello stabile, il signor Stefano Li Sacchi, lasciando undici orfani e una ventina di feriti, tra i quali Giovanni Parpacuri, l’autista sopravvissuto. “Palermo come Beirut”, titolò più di un quotidiano. Quell’autobomba usata da Cosa nostra, la prima di una vile, lunga serie, esplosa la mattina presto sotto casa del giudice Chinnici mentre stava per uscire, aveva sventrato e scosso non solo via Pipitone Federico. Nove anni prima delle stragi di Capaci e via D’Amelio, in quell’afosa mattina palermitana dai ritmi lenti, l’Italia intera perse chi creò per primo il pool antimafia, chiamando a lavorare con sé magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e svelò i segreti bancari della criminalità organizzata, avviando un’attività d’indagine che avrebbe portato al primo maxiprocesso a Cosa nostra:

“Perché uomini come suo padre, Falcone e Borsellino hanno vissuto gli ultimi tempi del loro impegno in nome della legalità, consapevoli dei rischi che correvano, da soli?”.

“Per mio padre non c’era ancora questa sensibilità – spiega Caterina Chinnici – non si conosceva la mafia: neanche lo Stato, neanche le sue Istituzioni avevano contezza piena di quanto la mafia fosse pericolosa. E quindi era forse un po’ inevitabile che, come accade un po’ a tutti i pionieri, si ritrovassero da soli. Da soli e isolati, questa è la cosa ancora più triste. Mio padre chiese aiuto: quell’aiuto non arrivò. Si trovò da solo, isolato in un contesto di grande insensibilità e, forse, di paura. E questo è proseguito sicuramente fino alle due stragi. E’ dopo che è cambiata la coscienza sociale”.

All’incontro che si è svolto ieri sera alla Galleria d’Arte Moderna per ricordare “Rocco Chinnici uomo e giudice”, moderato dalla giornalista suor Fernanda Di Monte della Paoline Onlus, ha partecipato anche Giovanni Parpacuri, l’autista di scorta sopravvissuto alla strage. “Chi ha vissuto quei tragici momenti non li può dimenticare”, racconta visibilmente emozionato Parpacuri, medaglia d’argento al valor civile. “Sono qui – prosegue – per ricordare il consigliere Chinnici perché purtroppo di lui si parla troppo poco, è come se non esistesse. E invece è giusto che si dia il giusto merito sia a lui che a chi collaborava con lui, che quel giorno l’accompagnavano. Dobbiamo ricordarci di lui prima per la sua grande umanità e poi perché era il consigliere, il mio capo, il capo dell’ufficio”.

Negli anni Ottanta, a Palermo l’eroina continuava a flagellare molti ragazzi, per questo Chinnici, quando poteva, si recava negli istituti della città per parlare con i giovani. “Un uomo che aveva una grande motivazione morale. Aveva sperimentato mediante la sua professione – racconta padre Nino Fasullo, direttore della rivista “Segno” e amico del giudice – che l’organizzazione mafiosa era dannosa per la gioventù, per le famiglie, per la società. In qualità di magistrato, ma anche di uomo, di padre, si sentiva responsabile: era convinto di lottare questo binomio, come diceva, ‘mafia e droga’, di fare la sua parte contro questa organizzazione criminale perché per lui erano due sponde della criminalità rovinose per gli individui e le famiglie”.

Il 30 luglio 1983, giorno in cui vennero celebrati i funerali delle vittime della strage di via Pipitone Federico, Palermo aveva già pianto Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana il 6 gennaio 1980, Pio La Torre, sindacalista e segretario del Pci siciliano il 30 aprile 1982 e, il 3 settembre dello stesso anno, il generale dell'Arma dei Carabinieri e prefetto per soli 100 giorni, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Delitti sui quali Rocco Chinnici stava investigando ed era a un passo dal dare un’identità a mandanti ed esecutori materiali.

Veloce, corre il ricordo all’omelia pronunciata dall’allora cardinale del capoluogo siciliano, Salvatore Pappalardo, nella chiesa di San Domenico: “A quanti hanno ucciso noi vogliamo ricordare che non si può evitare il giudizio di Dio, giusto giudice delle azioni umane, il quale preferisce e desidera di poter usare verso il peccatore pentito la sua grande misericordia. Noi preghiamo perciò per la loro conversione... A questa città di Palermo, come pastore devo ripetere: Coraggio, non adattiamoci passivamente e fatalisticamente al male, ma vinciamolo con il bene che faremo. Contrastiamo le opere di morte con aiuti alla vita. Rispondiamo alle provocazioni dell’odio che distrugge, con la forza dell’amore che salva”.

Durante la commemorazione sono stati letti brani tratti dal libro “Così non si può vivere” di Eleonora Iannelli e Fabio De Pasquale. La storia mai raccontata del giudice che sfidò gli intoccabili” in cui sono riportati alcuni documenti inediti, un fascicolo dimenticato per quindici anni negli archivi e ritrovato per caso e, per la prima volta, le toccanti testimonianze dei figli del magistrato.

Caterina Chinnici spiega perchè a distanza di trentuno anni, è ancora importante ricordare la figura di suo padre, uomo e magistrato. L'intervista è di Alessandra Zaffiro:

E’ importante ricordarlo perché è da lui che è nata la vera ‘antimafia’, dal suo lavoro. Dal fatto che lui per primo ha portato il suo lavoro fuori dagli uffici giudiziari. Dal fatto che si è rivolto ai giovani, dal fatto che oltre a fare la sua attività di indagine – nella quale ha segnato una svolta importante, perché quello che è stato il maxiprocesso nasce dalle sue indagini – è importante perché ha cambiato la cultura giudiziaria, ha creato il pool antimafia che è stato chiamato così dopo la sua morte ma che è nato con lui. Io che ero in quell’ufficio da uditore l’ho visto nascere il pool antimafia: l’appartarsi con Borsellino e con Falcone a parlare di quelle indagini. È importante perché ha cambiato proprio la cultura: stimolare soprattutto nei giovani una nuova conoscenza, far conoscere il suo lavoro, far comprendere quanto purtroppo la mafia – la criminalità organizzata – era un problema non solo degli uffici giudiziari ma per tutti i cittadini, perché era un’oppressione per tutti. Quindi, stimolare il cambiamento, stimolare una coscienza diversa, stimolare quella sensibilità arrivata purtroppo molti anni dopo la sua morte: in realtà, è arrivata dopo le due stragi di Falcone e Borsellino. Sensibilità collettiva che oggi vede la solidarietà dei cittadini al fianco dei magistrati che contrastano la criminalità organizzata. Quindi, è importante ricordarlo perché ha segnato un cambiamento”.








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