2014-05-28 11:33:00

Usa lasciano Afghanistan: atteso accordo su sicurezza


Ennesimo attacco in Afghanistan, nella provincia occidentale di Herat. Feriti due cittadini americani in un’auto diplomatica. Solo poche ore fa, il presidente Obama ha annunciato che nel 2015, se sarà firmato l'Accordo bilaterale strategico (Bsa), resteranno in Afghanistan meno di 10 mila uomini. E’ previsto infatti che si chiuda alla fine del 2014, dopo un decennio, la missione di combattimento americana in Afghanistan. L’accordo, già approvato anche dall'assemblea di anziani e leader tribali, la Loya Jirga, non è stato firmato dal presidente Karzai e dunque verrà sottoposto al suo successore che uscirà dal ballottaggio, il 14 giugno, tra i due ex ministri, quello degli Esteri, Abdullah Abdullah (45% dei voti), e quello delle Finanze, Ashraf Ghani (31,6%). Fausta Speranza ha intervistato Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all'Università del Salento: 

R. - È chiaro che probabilmente un governo afghano - qualsiasi esso possa essere - abbia bisogno di un appoggio esterno o interno e in questo caso degli Stati Uniti. Però c’è anche da dire che ci troviamo in un momento di passaggio tra una presidenza ed un’altra, e quindi bisogna vedere chi prende degli impegni e con chi. Questo è il problema più grave.

D. - Possiamo dire che il Paese è pronto al ritiro delle truppe statunitensi?

R. - Non credo che il Paese sia pronto al ritiro delle truppe statunitensi, però aggiungerei che probabilmente non sarà mai pronto ad un possibile ritiro se queste assicurassero una sicurezza sul campo. Dobbiamo comunque guardare al passato e all’esperienza, ad esempio, della guerra in Iraq, e analizzare se questo ha lasciato degli aspetti assolutamente positivi in un Paese dopo un intervento degli Stati Uniti in Iraq o quello della Nato in Afghanistan. Qui la mia risposta è sì, sicuramente ci sono dei problemi di sicurezza. Per potere avere una certa stabilità – lo riconoscono gli alti comandi americani e della Nato - le amministrazioni hanno dovuto scendere a patti in alcune province più calde - diciamo così - o con i vecchi capi talebani, o con uomini che in un modo o in un altro sono legati a questi vecchi capi. Quindi a questo punto, tutta l’euforia iniziale della guerra contro i talebani si è risolta in un cambio di governo nella capitale ma nelle province lontane - e a volte nemmeno così lontane - la situazione è praticamente ugnale a quella del 2001. Se guardiamo agli avvenimenti, c’è stata una vittoria nei confronti di Al Qeada in Afghanistan: almeno i capi più importanti sono stati costretti a cambiare territorio, ad andare in un territorio probabilmente molto meno sicuro per loro. Però se guardiamo la strategia globale di Al Qaeda - perché Al Qaeda lo sanno tutti non è un’organizzazione terroristica normale ma è una rete e questo rende quasi impossibile bloccarla in tutti i suoi gangli -  notiamo che si è praticamente dispiegata sull’intero vicino e Medio Oriente approfittando a volte di alcune crisi determinate o dalle pseudo Primavere arabe oppure - e guardiamo alla Libia - da interventi che gli occidentali hanno fatto in quell’area per mandare via Gheddafi che, in un modo o in un altro, però rappresentava almeno in quel Paese la stabilità. Lo stesso problema si sta verificando ahimè in Siria.

D. - In pochissime parole come descriverebbe i cambiamenti in questi dieci anni di missione statunitense nel campo geopolitico?

R. - Nel campo geopolitico si sono create - ahimè - alcune crisi che hanno reso il quadro generale ancora più instabile. Posso capire l’intervento iniziale subito dopo l’11 settembre nei confronti dell’Afghanistan visto come il terreno che dava ospitalità ai talebani, ma da quello, alla famosa esportazione della democrazia è stato un salto e un totale e assoluto fallimento.








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