Dolore, sofferenza umana e cure palliative al centro del Convegno dei medici cattolici
italiani
A 70 anni dalla sua fondazione l’Amci, Associazione Medici Cattolici Italiani, ha
convocato a Roma un convegno celebrativo del 30.mo anniversario della lettera Apostolica
“Salvifici Doloris” di San Giovanni Paolo II. Tema dell’incontro: “Il dolore e la
sofferenza alla luce della medicina della ragione e della fede cristiana”. Paolo
Ondarza ha intervistato Filippo Maria Boscia, presidente Amci:
R. – Oggi si
sta ponendo l’accento sulla problematica della sedazione del dolore. C’è stato da
superare un lungo ed inesauribile equivoco, perché qualcuno ha interpretato che la
sofferenza fosse benefica per una proiezione oltre la vita.
D. – Si tratta
di un pregiudizio diffuso...
R. – Questo pregiudizio non ha tenuto presente
che la nostra religione non è una religione della sofferenza ma è una religione della
gioia. La sofferenza non ce la manda il Signore, ce la manda la fragilità della nostra
condizione umana. Allora, viceversa, sia la regione, sia la medicina sono unanimi
nel dire che tutto quello che può essere sedato deve essere sedato e se abbiamo a
disposizione farmaci che nel passato erano considerati poco maneggevoli devono essere
sollecitamente impiegati. Tant’è che si comincia a parlare di ospedali senza dolore.
D.
– Anche perché il dolore può portare a pensare talvolta a scelte estreme…
R.
– Certamente, il dolore quando diventa insopportabile, quando riempie la psiche del
soggetto, chiaramente, si chiede di farla finita. In realtà queste non sono le richieste
vere degli ammalati, dei cronici, delle persone afflitte dal dolore. La richiesta
è quella di rimuovere la componente del dolore. E’ chiaro che se viceversa anziché
rimuoverla, noi andiamo ad acuirla, lì in sostanza viene meno la forza intima, morale,
di sopportazione. Io credo che nell’ambito di chi assiste queste persone subentri
la grande volontà di veder terminare questo percorso del dolore. Chi si augura che
la malattia finisca presto, non vuole includere - in questa fine rapida - la morte,
ma vuole includere la fine del dolore.
D. - Ecco perché le cure palliative
necessitano di essere conosciute meglio…
R. – Sicuramente le cure palliative
sono state per molto tempo ridicolizzate. Io ho avuto una grande amicizia con il primo
proponente delle cure palliative, qui in Italia, il prof. Ventafridda, il quale veniva
quasi canzonato dai suoi colleghi. Ventafridda ha stabilito una volta per tutte una
cosa: il rapporto medico-paziente è un incontro tra una fiducia quella del paziente
e una coscienza quella del medico. E ha stabilito che in questo rapporto ci sia un’alleanza,
che chiamava “alleanza terapeutica”. La persona si trova in una condizione di fragilità.
E’ come se fosse un bambino: nel momento in cui un bambino deve attraversare la strada
ad ampio traffico, generalmente, ha l’abitudine di prendere per mano il suo tutor,
che può essere il papà, la mamma, il nonno. In un momento di fragilità, il malato
ha bisogno di essere preso per mano. Ha bisogno di essere accompagnato con una carezza.
Noi abbiamo fatto nella nostra realtà l’esperienza della fiaba raccontata al malato
cronico, al malato con tumore invasivo. C’è una risposta positiva che aiuta, attraverso
meccanismi di endorfine, un miglioramento e soprattutto un’adesione al progetto di
cura.
D. – Mai un medico deve dire che non c’è più niente da fare…
R.
– Sì, direi che questo è un elemento dominante. Il medico non deve dare assolutamente
mai l’impressione di abbandonare. Il discorso dell’eutanasia, al quale facevamo riferimento
prima, deriva dall’immagine dell’abbandono: quando una persona in abbandono vuol farla
finita.
La terapia del dolore e le cure palliative rappresentano un’importante
risorsa nella malattia e nel fine vita. Vincere il dolore infatti, come evidenziato
durante il convegno Amci, vuol dire vincere la richiesta di eutanasia. Su questo aspetto
si sofferma mons.Ignacio Carrasco de Paula, presidente della Pontificia
Accademia della Vita. L’intervista è di Paolo Ondarza:
R. – Effettivamente,
fino a poco tempo fa, la giustificazione che veniva offerta per un’eventuale eutanasia
era sempre questa: liberare l’uomo di un dolore. Ma ormai le cose sono cambiate in
modo molto radicale. Io stesso ho avuto occasione di vederlo, quando stavo alla facoltà
di medicina del Gemelli, perché ho presenziato - non come tecnico del dolore, ovviamente
- a intereventi risolutivi anche nelle situazioni più disperate. Perché se è necessario,
si arriva a quella che è conosciuta come “sedazione profonda”. Una persona continua
a vivere però senza soffrire.
D. – Poco conosciute e in questo convegno se
ne parla sono le cure palliative…
R. – Sì, sarebbe molto importante che tutti
sapessimo che ormai il dolore non è una cosa che si deve sopportare e basta. Ormai
c’è già una disponibilità di interventi - alle volte sono costosi, questo bisogna
dirlo - però non c’è nessun motivo per doversi tenere un dolore, una sofferenza, anzi
se è possibile bisogna prevenire. Per esempio, il Gemelli ha anche un hospice per
persone che si trovano in una situazione molto complicata, quasi sempre si tratta
problemi di natura oncologica. L’ala direttrice segue un’impostazione di prevenzione,
non aspetta che il dolore compaia ma quando ci sono già i primi segni di un’evoluzione
che si vede prenderà quella o quella strada, interviene perché questo è molto più
efficace. Si stanno facendo passi in avanti enormi. Non direi che ogni giorno arriva
un nuovo farmaco, un nuovo interevento palliativo, però le prospettive sono sempre
migliori.
D. – La preghiera per i pazienti e la preghiera del paziente: cosa
si può dire su questo?
R. – Si potrebbe dire molto. La preghiera, dal punto
di vista della salute, della situazione corporale, migliora tante cose. Una spiegazione,
la più ovvia che viene in mente, è che questo significhi un intervento dall’alto,
ma risponde anche alla messa in moto di certi meccanismi sconosciuti ma che aiutano.
Sull’attualità
della lettera Apostolica “Salvifici Doloris”, scritta trent’anni fa da San Giovanni
Paolo II, Paolo Ondarza ha intervistato mons. Zygmunt Zimovski, presidente
del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari:
R. – Noi sappiamo
che da sempre nel mondo esiste il dolore, la sofferenza. Quando improvvisamente viene
la malattia di un innocente, di un bambino, noi chiediamo il perché. Credo che la
risposta sia Gesù Cristo che ha sofferto per noi, per la nostra salvezza. La prima
enciclica che ha scritto Giovanni Paolo II, è la Redemptor hominis: Gesù Cristo è
il redentore dell’uomo. In questa enciclica Giovanni Paolo II ha scritto che l’uomo
è la via della Chiesa. Nella lettera Salvifici doloris ha aggiunto che, in modo particolare,
quando viene la sofferenza la propria sofferenza si unisce con quella di Gesù Cristo.
D.
– L’umanità fa i conti sempre con la sofferenza. Giovanni Paolo II è stato un testimone
di come affrontare con fede la sofferenza…
R. – Lui è icona del Vangelo della
sofferenza, ha sofferto tanto. Noi ricordiamo l’attentato, il 13 maggio 1981, e anche
dopo alcuni interventi. Ma, aveva sempre questa gioia e questa speranza. Dopo il pontificato
di Giovanni Paolo II ho sentito che sono rimasti cinque milioni di fotografie ma per
me la fotografia più bella, più toccante, è del Venerdì Santo, quando il Papa tiene
la Croce unendosi con la via Crucis del Colosseo: il Papa prega aggrappato alla Croce
del suo Signore, del suo Maestro. Lui un giorno ha detto che pregava per la salute
degli altri ma non pregava mai per la propria salute.
D. – Questo dà anche
l’idea di come la prossimità agli altri attraverso la preghiera e la testimonianza
di vita negli ospedali, nelle strutture sanitarie, sia molto importante…
R.
– Io volevo anche aggiungere quello che ci dice Papa Francesco nella sua enciclica
sulla fede. Lui dice che il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata
ma può ricevere un senso e questo è importante: può diventare – sottolinea il Papa
– atto di amore, di affidamento nelle mani di Dio che non ci abbandona.