2014-04-22 15:58:16

Sud Sudan. Onu denuncia massacro di civili. P. Moschetti: siamo in grave difficoltà


Nuova strage in Sud Sudan. Centinaia di civili – denuncia l’Onu – sono stati massacrati nella città di Bentiu, capoluogo dello Stato di Unity, nel nord del Paese, ricco di giacimenti petroliferi. A compiere il massacro sono stati i ribelli di etnia Nuer, fedeli all’ex vicepresidente Machar, estromesso nel luglio scorso dal presidente Salva Kiir, di etnia Dinka. I ribelkli però hanno negato ogni responsabilità. Roberta Gisotti ha intervistato padre Daniele Moschetti, superiore provinciale dei Comboniani del Sud Sudan, nella capitale Juba:RealAudioMP3

R. – Certamente, è una situazione molto difficile. C’è stata un’escalation di fatti esattamente la settimana scorsa, proprio durante la Settimana Santa, sia a Bentiu ma poi anche a Bor. Sono due cittadine, capitali di due Stati diversi del Sud Sudan. Nel Sud Sudan, ci sono dieci Stati: Bentiu è la capitale dello Stato Unity, Bor è la capitale di Jonglei, e Malakal, che è molto distrutta, dove in questo momento non ci sono soldati, è la capitale dello Stato dell’Upper Nile. Questi sono i tre Stati nei quali si sta svolgendo questa guerra. Martedì scorso, l’esercito regolare ha perso il controllo della città di Bentiu nei confronti dei ribelli di Machar e quindi un gran numero di ribelli è entrato in città sia a Rubkona, che è la cittadina prima di Bentiu, e poi a Bentiu. Si dice che sì, siano oltre 300 i morti nella zona, ma non sono solamente Dinka perché molti sono stati uccisi nella grande moschea a Bentiu, poi anche nella chiesa e anche negli ospedali. Molti di questi morti sono darfuriani, cioè persone che sono commercianti e quindi vanno al mercato e vendono. Siamo molto vicini al confine con il Sudan, e qui sembra che siano stati uccisi più di 150 all’interno della moschea. Non sono soltanto i Dinka che sono morti, ma anche i Nuer che non gioivano per l’entrata di questi ribelli nella città.

D. – Che cosa spinge il popolo sudsudanese, dopo avere conquistato faticosamente dopo annose guerre civili l’indipendenza, a massacrarsi in questo conflitto intestino?

R. – Non è corretto dire “popolo sudsudanese”, perché sono 62 etnie diverse e chi si sta combattendo, soprattutto i due leader, rappresentano le due più grandi etnie in questo momento. Quindi, Salva Kiir, con l’esercito regolare ma aiutato tantissimo dai darfuriani. Per quale motivo, c’è stato questo grande attacco? Perché qualche mese fa i darfuriani hanno aiutato a riconquistare lo Stato di Unity e questa, quindi, è una rappresaglia contro queste alleanze che, secondo i ribelli, Salva Kiir sta concludendo con ugandesi, con i darfuriani del Sudan e con altri, sempre del Sudan, ma anche – in altre zone – con gli ugandesi verso il Sud, verso Bor. E quindi, è una situazione molto conflittuale, molto pericolosa perché porta ad aprire un nuovo conflitto in termini molto più regionali come quello che si è verificato a Bor, dove 300 giovani Dinka sono entrati nel compound, nel grande campo delle Nazioni Unite, Unmiss, nel quale volevano entrare a tutti i costi perché la gente Nuer che era in questo campo – e sono migliaia – stava gioendo per la vittoria che i ribelli avevano avuto a Bentiu. Quindi, i giovani Dinka hanno incominciato a sparare e hanno ammazzato – ufficialmente, dicono – 50 persone e fatto 200 feriti, ma sembra che ci siano stati 150 morti e oltre 300 feriti. Questo è stato ancora più grave perché vuol dire che nemmeno nei campi delle Nazioni Unite, dove la gente sta cercando rifugio da una parte e dall’altra, si è più sicuri.

D. – Qual è la situazione della missione comboniana? Cosa riuscite a fare, o temete anche per la vostra incolumità?

R. – Noi, due mesi fa, a febbraio, abbiamo perso una missione a Leer, a 100 km da Bentiu, quando l’esercito regolare ha recuperato dai ribelli la capitale dell’Unity State, praticamente ha recuperato i campi petroliferi, che sono molto vicini e vicinissimo c’è la nostra missione. Ecco: i nostri confratelli e consorelle comboniani sono rimasti per quasi un mese e mezzo sotto i ribelli, perché logicamente quella è una zona tutta in mano ai ribelli, è uno Stato di Nuer: molti, in quella zona, sono Nuer. Quando invece poi l’esercito ha riconquistato, c’è stato un fuggi fuggi generale, quindi anche la distruzione totale, l’uccisione di persone, e anche i nostri sono dovuti scappare, perché hanno sentito che erano esattamente i darfuriani che aiutavano l’esercito regolare a riconquistare Leer, che originariamente è il villaggio di Riek Machar, cioè del vicepresidente. E lì hanno bruciato tutto, hanno distrutto tutto: villaggio, città e anche la nostra missione. Hanno rubato tutto, anche nella scuola tecnica che avevamo. I nostri confratelli e le consorelle sono rimasti tre settimane senza alcun contatto – perché non avevamo più possibilità di avere nemmeno contatti telefonici – nelle foreste e anche nelle paludi, insieme alla gente, insieme a migliaia di persone che scappavano dei villaggi, andavano a nascondersi… Siamo riusciti poi con il tempo, in queste tre settimane, a recuperarli. Poi abbiamo altre missioni e si cerca di essere ovunque anche segni di speranza, anche perché è importante per noi come Chiesa, come missionari, essere in mezzo a queste situazioni e cercare di portare una parola di forza e di consolazione ma allo stesso tempo anche cercare di dare dei messaggi di riconciliazione, di dialogo perché in alcune zone del Paese, fino a quando non si siederanno al tavolo i due leader delle due fazioni, ci sarà poco da fare. Io, in questo momento, sono in una zona vicina al confine con l’Uganda: siamo a 50 km dall’Uganda. Qui non sentono nemmeno cosa voglia dire la guerra. In tante parti del Paese, non si sente lo spirito della guerra, perché sono altre etnie. E questo è quello che sorprende moltissimo i sud sudanesi: la lotta che hanno fatto, quello che hanno pagato due milioni e mezzo di persone morte nell’ultima guerra. Hanno pagato moltissimo! Ma sembra che davvero i due leader non abbiano più il controllo di questa grande violenza che si sta scatenando in alcune zone del Paese.







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