Sud Sudan. Onu denuncia massacro di civili. P. Moschetti: siamo in grave difficoltà
Nuova strage in Sud Sudan. Centinaia di civili – denuncia l’Onu – sono stati massacrati
nella città di Bentiu, capoluogo dello Stato di Unity, nel nord del Paese, ricco di
giacimenti petroliferi. A compiere il massacro sono stati i ribelli di etnia Nuer,
fedeli all’ex vicepresidente Machar, estromesso nel luglio scorso dal presidente Salva
Kiir, di etnia Dinka. I ribelkli però hanno negato ogni responsabilità. Roberta
Gisotti ha intervistato padre Daniele Moschetti, superiore provinciale
dei Comboniani del Sud Sudan, nella capitale Juba:
R. – Certamente,
è una situazione molto difficile. C’è stata un’escalation di fatti esattamente
la settimana scorsa, proprio durante la Settimana Santa, sia a Bentiu ma poi anche
a Bor. Sono due cittadine, capitali di due Stati diversi del Sud Sudan. Nel Sud Sudan,
ci sono dieci Stati: Bentiu è la capitale dello Stato Unity, Bor è la capitale di
Jonglei, e Malakal, che è molto distrutta, dove in questo momento non ci sono soldati,
è la capitale dello Stato dell’Upper Nile. Questi sono i tre Stati nei quali si sta
svolgendo questa guerra. Martedì scorso, l’esercito regolare ha perso il controllo
della città di Bentiu nei confronti dei ribelli di Machar e quindi un gran numero
di ribelli è entrato in città sia a Rubkona, che è la cittadina prima di Bentiu, e
poi a Bentiu. Si dice che sì, siano oltre 300 i morti nella zona, ma non sono solamente
Dinka perché molti sono stati uccisi nella grande moschea a Bentiu, poi anche nella
chiesa e anche negli ospedali. Molti di questi morti sono darfuriani, cioè persone
che sono commercianti e quindi vanno al mercato e vendono. Siamo molto vicini al confine
con il Sudan, e qui sembra che siano stati uccisi più di 150 all’interno della moschea.
Non sono soltanto i Dinka che sono morti, ma anche i Nuer che non gioivano per l’entrata
di questi ribelli nella città.
D. – Che cosa spinge il popolo sudsudanese,
dopo avere conquistato faticosamente dopo annose guerre civili l’indipendenza, a massacrarsi
in questo conflitto intestino?
R. – Non è corretto dire “popolo sudsudanese”,
perché sono 62 etnie diverse e chi si sta combattendo, soprattutto i due leader, rappresentano
le due più grandi etnie in questo momento. Quindi, Salva Kiir, con l’esercito regolare
ma aiutato tantissimo dai darfuriani. Per quale motivo, c’è stato questo grande attacco?
Perché qualche mese fa i darfuriani hanno aiutato a riconquistare lo Stato di Unity
e questa, quindi, è una rappresaglia contro queste alleanze che, secondo i ribelli,
Salva Kiir sta concludendo con ugandesi, con i darfuriani del Sudan e con altri, sempre
del Sudan, ma anche – in altre zone – con gli ugandesi verso il Sud, verso Bor. E
quindi, è una situazione molto conflittuale, molto pericolosa perché porta ad aprire
un nuovo conflitto in termini molto più regionali come quello che si è verificato
a Bor, dove 300 giovani Dinka sono entrati nel compound, nel grande campo delle
Nazioni Unite, Unmiss, nel quale volevano entrare a tutti i costi perché la gente
Nuer che era in questo campo – e sono migliaia – stava gioendo per la vittoria che
i ribelli avevano avuto a Bentiu. Quindi, i giovani Dinka hanno incominciato a sparare
e hanno ammazzato – ufficialmente, dicono – 50 persone e fatto 200 feriti, ma sembra
che ci siano stati 150 morti e oltre 300 feriti. Questo è stato ancora più grave perché
vuol dire che nemmeno nei campi delle Nazioni Unite, dove la gente sta cercando rifugio
da una parte e dall’altra, si è più sicuri.
D. – Qual è la situazione della
missione comboniana? Cosa riuscite a fare, o temete anche per la vostra incolumità?
R.
– Noi, due mesi fa, a febbraio, abbiamo perso una missione a Leer, a 100 km da Bentiu,
quando l’esercito regolare ha recuperato dai ribelli la capitale dell’Unity State,
praticamente ha recuperato i campi petroliferi, che sono molto vicini e vicinissimo
c’è la nostra missione. Ecco: i nostri confratelli e consorelle comboniani sono rimasti
per quasi un mese e mezzo sotto i ribelli, perché logicamente quella è una zona tutta
in mano ai ribelli, è uno Stato di Nuer: molti, in quella zona, sono Nuer. Quando
invece poi l’esercito ha riconquistato, c’è stato un fuggi fuggi generale, quindi
anche la distruzione totale, l’uccisione di persone, e anche i nostri sono dovuti
scappare, perché hanno sentito che erano esattamente i darfuriani che aiutavano l’esercito
regolare a riconquistare Leer, che originariamente è il villaggio di Riek Machar,
cioè del vicepresidente. E lì hanno bruciato tutto, hanno distrutto tutto: villaggio,
città e anche la nostra missione. Hanno rubato tutto, anche nella scuola tecnica che
avevamo. I nostri confratelli e le consorelle sono rimasti tre settimane senza alcun
contatto – perché non avevamo più possibilità di avere nemmeno contatti telefonici
– nelle foreste e anche nelle paludi, insieme alla gente, insieme a migliaia di persone
che scappavano dei villaggi, andavano a nascondersi… Siamo riusciti poi con il tempo,
in queste tre settimane, a recuperarli. Poi abbiamo altre missioni e si cerca di essere
ovunque anche segni di speranza, anche perché è importante per noi come Chiesa, come
missionari, essere in mezzo a queste situazioni e cercare di portare una parola di
forza e di consolazione ma allo stesso tempo anche cercare di dare dei messaggi di
riconciliazione, di dialogo perché in alcune zone del Paese, fino a quando non si
siederanno al tavolo i due leader delle due fazioni, ci sarà poco da fare. Io, in
questo momento, sono in una zona vicina al confine con l’Uganda: siamo a 50 km dall’Uganda.
Qui non sentono nemmeno cosa voglia dire la guerra. In tante parti del Paese, non
si sente lo spirito della guerra, perché sono altre etnie. E questo è quello che sorprende
moltissimo i sud sudanesi: la lotta che hanno fatto, quello che hanno pagato due milioni
e mezzo di persone morte nell’ultima guerra. Hanno pagato moltissimo! Ma sembra che
davvero i due leader non abbiano più il controllo di questa grande violenza che si
sta scatenando in alcune zone del Paese.