2014-03-25 14:11:43

Centrafrica: nuove vittime a Bangui. P. Gazzera: lottare per riportare la pace


Resta difficile la situazione in Centrafrica dove, secondo la Croce Rossa, sono ripresi gli scontri tra gruppi armati a Bangui. Sarebbero 20 le vittime degli ultimi giorni. A pagare per le violenze che infiammano il Paese da mesi sono soprattutto i civili, sono circa 600 mila gli sfollati accolti nei campi profughi, nelle chiese e nelle moschee. In questa situazione, i rappresentanti della “piattaforma dei religiosi per la pace” composta da mons. Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, il pastore Nicolas Grékoyamé-Gbangou, presidente delle chiese Evangeliche, e l’imam di Bangui, Oumar Kobine Layama, hanno lanciato l’ipotesi di creare delle “scuole di pace” dove far studiare bambini di religioni diverse. Allo stesso tempo, hanno chiesto la costituzione di centri sanitari misti che accolgano tutti, senza distinzione di religione o di etnia. Benedetta Capelli ha raccolto la testimonianza di padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano, raggiunto telefonicamente a Bozoum in Centrafrica:RealAudioMP3

R. – Dove mi trovo io, a Bozoum, a 400 chilometri a nord di Bangui, la situazione è sempre molto fragile. Qui in città, però, riusciamo a tenere la situazione abbastanza sotto controllo. Abbiamo costituito una specie di comitato di mediazione, che in questi giorni inizierà a fare anche alcune sedute in una specie di tribunale popolare, per dirimere le piccole infrazioni, i piccoli litigi che ci possono essere. I problemi riguardano alcuni anti-balaka, che nella maggior parte sono giovani e che continuano a minacciare, a rubare e a saccheggiare. Il problema più grosso invece è la situazione di instabilità, anche per la questione dei Peul, che sono popolazioni nomadi, e che fino a qualche mese fa erano abbastanza tranquille. Adesso sono scappate quasi tutte. Siamo però nel periodo della transumanza, quando il bestiame ritorna verso il nord, e allora diventano vittime degli attacchi di questi giovani, di questi anti-balaka. Anche in questi giorni, a 90 chilometri da qui, verso Bocaranga ci sono stati degli attacchi, dei morti. Io ho trovato una settantina di persone, fra donne e bambini, rifugiati in un villaggio e stiamo cercando di far muovere qualcuno dell’Hcr, l’agenzia delle Nazioni Unite, però, è molto, molto difficile.

D. – Secondo le sue informazioni, quali sono le aree più difficili da gestire, anche per gli operatori umanitari?

R. – Il problema grosso è soprattutto su Bangui, dove da un paio di giorni sono ripresi di nuovo questi scontri fortissimi. Nel nostro Convento di Bangui, che ospita da mesi rifugiati, il numero era sceso a cinquemila e ora è salito di nuovo ad oltre quindicimila presenze. La situazione a Bangui è fuori controllo. Sembra che sia quasi impossibile trovare un sistema per calmare le acque. La tendenza è un po’ quella di continuare a distruggere tutto. E’ una follia che non si riesce ad arginare.

D. – Eppure, i vescovi del Paese hanno rimarcato, anche con numerosi documenti, che alla base di questo conflitto non ci sono motivi religiosi...

R. – No, anzi. Chi viene a rifugiarsi sa bene, è chiaro per lui, che non è ricercato perché musulmano ma è ricercato perché è di un’etnia, perché ha dei soldi, perché ha collaborato a volte con la Seleka o perché il suo gruppo ha fatto qualcosa. Non c’è niente di religioso. Ormai, si assiste da un lato alla scarsità dei mezzi militari – i vescovi lo hanno denunziato ieri – ma è chiaro che all’inizio nessuno ha capito o preso in considerazione come poteva evolvere la situazione. Quindi, ci vuole un ripensamento profondo a quel livello, ci vuole un investimento maggiore di persone e così via. E poi è chiaro che quello militare non è l’unico problema, dietro c’è tutto un lavoro da fare di ricostruzione: economica, ma soprattutto spirituale, di formazione, di educazione. E’ un lavoro enorme che ci aspetta.

D. – Lì dove si trova lei, nella sua zona, il fatto di aver formato dei comitati di cittadini è un segnale comunque di speranza?

R. – Sì, infatti, l’arcivescovo di Bangui ha passato qui due settimane insieme all’imam: è venuto anche lui, abbiamo discusso. E’ un segno di speranza, anche perché per costruire la pace non bisogna proprio mollare, bisogna continuare a lottare anche quando sembra che la situazione sia disperata: quando sembra che non ci sia più niente da fare, c’è ancora sempre qualcosa da tentare ed è lì che bisogna continuare a sperare e a lavorare.







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