Centrafrica: nuove vittime a Bangui. P. Gazzera: lottare per riportare la pace
Resta difficile la situazione in Centrafrica dove, secondo la Croce Rossa, sono ripresi
gli scontri tra gruppi armati a Bangui. Sarebbero 20 le vittime degli ultimi giorni.
A pagare per le violenze che infiammano il Paese da mesi sono soprattutto i civili,
sono circa 600 mila gli sfollati accolti nei campi profughi, nelle chiese e nelle
moschee. In questa situazione, i rappresentanti della “piattaforma dei religiosi per
la pace” composta da mons. Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, il pastore
Nicolas Grékoyamé-Gbangou, presidente delle chiese Evangeliche, e l’imam di Bangui,
Oumar Kobine Layama, hanno lanciato l’ipotesi di creare delle “scuole di pace” dove
far studiare bambini di religioni diverse. Allo stesso tempo, hanno chiesto la costituzione
di centri sanitari misti che accolgano tutti, senza distinzione di religione o di
etnia. Benedetta Capelli ha raccolto la testimonianza di padre Aurelio Gazzera,
missionario carmelitano, raggiunto telefonicamente a Bozoum in Centrafrica:
R. – Dove mi
trovo io, a Bozoum, a 400 chilometri a nord di Bangui, la situazione è sempre molto
fragile. Qui in città, però, riusciamo a tenere la situazione abbastanza sotto controllo.
Abbiamo costituito una specie di comitato di mediazione, che in questi giorni inizierà
a fare anche alcune sedute in una specie di tribunale popolare, per dirimere le piccole
infrazioni, i piccoli litigi che ci possono essere. I problemi riguardano alcuni anti-balaka,che nella maggior parte sono giovani e che continuano a minacciare, a rubare e
a saccheggiare. Il problema più grosso invece è la situazione di instabilità, anche
per la questione deiPeul, che sono popolazioni nomadi, e che fino a qualche
mese fa erano abbastanza tranquille. Adesso sono scappate quasi tutte. Siamo però
nel periodo della transumanza, quando il bestiame ritorna verso il nord, e allora
diventano vittime degli attacchi di questi giovani, di questi anti-balaka. Anche in
questi giorni, a 90 chilometri da qui, verso Bocaranga ci sono stati degli attacchi,
dei morti. Io ho trovato una settantina di persone, fra donne e bambini, rifugiati
in un villaggio e stiamo cercando di far muovere qualcuno dell’Hcr, l’agenzia delle
Nazioni Unite, però, è molto, molto difficile.
D. – Secondo le sue informazioni,
quali sono le aree più difficili da gestire, anche per gli operatori umanitari?
R.
– Il problema grosso è soprattutto su Bangui, dove da un paio di giorni sono ripresi
di nuovo questi scontri fortissimi. Nel nostro Convento di Bangui, che ospita da mesi
rifugiati, il numero era sceso a cinquemila e ora è salito di nuovo ad oltre quindicimila
presenze. La situazione a Bangui è fuori controllo. Sembra che sia quasi impossibile
trovare un sistema per calmare le acque. La tendenza è un po’ quella di continuare
a distruggere tutto. E’ una follia che non si riesce ad arginare.
D. – Eppure,
i vescovi del Paese hanno rimarcato, anche con numerosi documenti, che alla base di
questo conflitto non ci sono motivi religiosi...
R. – No, anzi. Chi viene a
rifugiarsi sa bene, è chiaro per lui, che non è ricercato perché musulmano ma è ricercato
perché è di un’etnia, perché ha dei soldi, perché ha collaborato a volte con la Seleka
o perché il suo gruppo ha fatto qualcosa. Non c’è niente di religioso. Ormai, si assiste
da un lato alla scarsità dei mezzi militari – i vescovi lo hanno denunziato ieri –
ma è chiaro che all’inizio nessuno ha capito o preso in considerazione come poteva
evolvere la situazione. Quindi, ci vuole un ripensamento profondo a quel livello,
ci vuole un investimento maggiore di persone e così via. E poi è chiaro che quello
militare non è l’unico problema, dietro c’è tutto un lavoro da fare di ricostruzione:
economica, ma soprattutto spirituale, di formazione, di educazione. E’ un lavoro enorme
che ci aspetta.
D. – Lì dove si trova lei, nella sua zona, il fatto di aver
formato dei comitati di cittadini è un segnale comunque di speranza?
R. – Sì,
infatti, l’arcivescovo di Bangui ha passato qui due settimane insieme all’imam: è
venuto anche lui, abbiamo discusso. E’ un segno di speranza, anche perché per costruire
la pace non bisogna proprio mollare, bisogna continuare a lottare anche quando sembra
che la situazione sia disperata: quando sembra che non ci sia più niente da fare,
c’è ancora sempre qualcosa da tentare ed è lì che bisogna continuare a sperare e a
lavorare.