Musica e integrazione: primo disco di un gruppo musicale formato da rifugiati
Si chiama “Kermesse” ed è un gruppo musicale composto da rifugiati che vivono in Italia.
Grazie a un laboratorio musicale promosso dall’associazione “Prime Italia” hanno realizzato,
dopo un anno e mezzo di lavoro, il loro primo disco, esempio di integrazione tra culture
diverse. Il servizio di Davide Maggiore:
Una sinfonia
di suoni e nazionalità asiatiche, africane e sudamericane. Così definisce il risultato
del progetto Guglielmo Micucci, presidente di “Prime Italia”, che racconta
ai nostri microfoni i primi passi dell’iniziativa, nata dal contatto diretto con i
rifugiati:
“Ci siamo resi conto come molti di loro portassero dai loro Paesi
delle competenze anche musicali: chi aveva usato degli strumenti, chi aveva cantato
e chi aveva anche semplicemente il desiderio di poter esprimere le proprie emozioni,
i propri sentimenti attraverso la musica. Abbiamo iniziato gradualmente a creare un
gruppo di persone, che ha poi costituito un laboratorio. All’interno di incontri periodici,
ha realizzato questo cd, che ha preso il nome di “Kermesse” - da dove poi nasce anche
il nome del gruppo stesso”.
La scelta della musica come mezzo d’integrazione
ha anche un significato dal punto di vista ideale e culturale, prosegue Micucci:
“Questo
strumento ci permetteva di entrare più facilmente in contatto con queste persone e
soprattutto - e questa è un po’ la peculiarità di questo lavoro - ci permetteva anche
di mostrare a queste persone quali fossero le nostre origini musicali: quindi un rapporto
paritario, per mettere insieme - veramente in una grande kermesse - tradizioni di
tutti i Paesi, inclusa l’Italia”.
Le canzoni che compongono il cd "Kermesse",
e che il gruppo sta iniziando a eseguire anche dal vivo, hanno le loro radici nella
storia stessa dei rifugiati, nel viaggio che li ha portati ad abbandonare le terre
d’origine e nella loro nuova quotidianità, raccontata agli operatori di “Prime Italia”
e poi trasformata in suoni ed armonie grazie anche alla collaborazione del musicista
italiano Antonio Bevacqua. A spiegarlo è ancora Guglielmo Micucci:
“I testi
di queste canzoni parlano della loro storia, della loro migrazione - purtroppo, a
volte, forzata - delle cose che hanno lasciato nei loro Paesi di origine e delle speranze
che loro hanno: la speranza del futuro, di quello che loro vorrebbero e potrebbero
realizzare”.
In qualche caso, il lavoro nel laboratorio musicale ha portato
alla scoperta di nuove abilità e talenti personali. È accaduto ad Abdoulaye,
che in Costa d’Avorio lavorava da giornalista, ed era stato chiamato a scrivere alcuni
testi del disco:
“Io non ho mai cantato, ma la storia che io volevo raccontare,
che ho scritto, la volevo raccontare in maniera un po’ più personale: quindi mi hanno
detto 'Vai, prova a prendere il microfono… Prova a cantare e vediamo che faremo…'.
Così ho preso il microfono e ho cantato. Hanno trovato che la voce era bella: è così
che ho iniziato a cantare”.
Ed è ancora Abdoulaye a spiegare quale messaggio
ha voluto trasmettere in questo modo, attraverso le sue parole e la sua voce:
“Alla
fine noi dobbiamo sempre lavorare, sempre andare avanti, perché stiamo vivendo un
momento difficile. Dobbiamo avere coraggio, perché il futuro può essere interessante.
Questo è quello che io racconto in questa canzone”.