Via Crucis per le donne vittime di tratta, violenze e prostituzione: migliaia in piazza
a Roma
Alcune migliaia di persone, venerdì sera a Roma, hanno partecipato alla Via Crucis
per le “donne crocifisse”, vittime di tratta, violenze e prostituzione: 120 mila in
Italia nel solo 2013, e per il 37% minorenni. L’iniziativa, ricordata anche da Papa
Francesco domenica scorsa all’Angelus, si è svolta tra piazza Santi Apostoli e via
della Conciliazione, ed è stata organizzata dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata
da don Oreste Benzi, e dalla Pastorale Giovanile della Diocesi di Roma. Per noi c’era
Davide Maggiore:
La sofferenza
del Cristo tradito, rinnegato e crocifisso è la stessa sofferenza delle vittime della
tratta. Da questa consapevolezza, espressa nelle intenzioni di preghiera recitate
per le vie di Roma, è partita la via Crucis di ieri. E su questa analogia si è soffermato
anche don Aldo Buonaiuto, della Comunità Giovanni XXIII:
“La Via
Crucis è il simbolo della sofferenza e del dolore, del vero Dio e vero uomo Gesù,
che ha preso su di sé il peccato del mondo per riscattare l’umanità. Così, queste
donne in un certo senso assomigliano a Gesù”.
Durante la preghiera, alcune
delle vittime di questo traffico terribile hanno dato la loro testimonianza. Arrivate
dai loro Paesi per aiutare le famiglie, sperando in un lavoro onesto, sono state ingannate
e sono finite sulla strada: qui alla brutalità degli sfruttatori si è aggiunta per
loro l’indifferenza delle persone a cui erano costrette a vendersi, come racconta
una ragazza, originaria della Romania:
“La terza settimana, dopo
tutte le violenze che avevo subito, una donna mi ha messo lo scotch sulle ginocchia
per coprirmi le ferite e mi ha riportata in strada. Quando io stavo in strada, nessuno
degli uomini che si fermavano davanti a me mi ha mai chiesto se volevo aiuto o se
volevo essere portata in ospedale. Anzi, loro approfittavano ancora più di me”.
Sfuggite
ai loro torturatori grazie alla polizia, o soccorse dagli operatori della comunità
fondata da don Oreste Benzi, queste giovani donne cercano oggi di riprendersi dagli
abusi subiti e seguono percorsi di formazione. Contro la piaga della tratta, “non
per contenerla ma per sradicarla”, la Comunità Giovanni XXIII chiede a Governo e Parlamento
di varare un piano, e ai cittadini di unirsi, come avvenuto ieri sera, per manifestare
“con una sola voce” domandando libertà e giustizia per le donne schiavizzate. Parlare
di questa piaga è fondamentale, spiega ancora don Buonaiuto:
“Non
dobbiamo aver paura di denunciare il silenzio di troppe realtà quando si accetta o
si cade in discorsi che non riguardano il bene di queste donne. Purtroppo viviamo
ancora in una cultura molto maschilista. Sono nove milioni i maschi italiani che vanno
sulle strade e che pensano che si possa mercificare la persona, la si possa acquistare,
comprare, per queste finalità”.
Tutti possono impegnarsi per contrastare
questo fenomeno, ricorda Paolo Ramonda, presidente dell’Associazione Comunità
Papa Giovanni XXIII e il primo, fondamentale, passo è prenderne coscienza:
“Questo
non è ‘il lavoro più antico del mondo’, ma è l’ingiustizia più antica del mondo. Quindi,
a volte il nostro silenzio può essere connivenza con questa ingiustizia. Bisogna camminare
con le persone, con le istituzioni, con le associazioni di volontariato: camminare,
potendo anche, a volte, accoglierle nelle proprie famiglie, dando lavoro”.
Proprio
sull’importanza dell’inserimento lavorativo, ascoltiamo il commento di Raffaele
Bonanni, segretario generale della Cisl:
“La cosa fondamentale è il
lavoro, che è l’unico modo per dare una prospettiva a queste schiave, per rendersi
libere e per costruire la propria storia personale. Quindi è importante dare una prospettiva
di formazione e di lavoro perché credo che sia il modo più concreto di rifiutare quello
che avviene. E’una violenza davvero inaudita e c’è omertà su questa violenza. E’ la
violenza più brutale che si fa nei confronti delle donne”.
Ma quando si
fa loro incontro qualcuno che – come i volontari e gli operatori sociali impegnati
nel reinserimento – si avvicina loro per comprenderle e ascoltarle, queste donne esprimono
desideri semplici, ricordando la speranza che le aveva portate in Italia, come fa
questa ragazza nigeriana:
“Devo avere il permesso di soggiorno, cosi
posso lavorare come cuoca”.