Siria, tre anni fa l'inizio del conflitto. La Croce Rossa: cibo e medicine priorità
assolute
Tre anni fa iniziava il conflitto in Siria, trasformatosi presto in una sanguinosa
guerra civile: alcune stime, non ufficiali, parlano di 146 mila morti, due milioni
e mezzo di rifugiati, mentre 9 milioni di persone hanno urgente bisogno di assistenza.
Tra esercito governativo e ribelli, continua la battaglia per il controllo delle aree
strategiche del Paese: le truppe regolari sono entrate nelle scorse ore a Yabroud,
località a nord di Damasco, finora in mano ai ribelli. Il servizio di Davide Maggiore:
Dall’aria il
bombardamento degli elicotteri, da terra l’avanzata dell’esercito, affiancato da elementi
degli Hezbollah libanesi, che si scontrano con i ribelli islamisti di Al Nusra e con
i qaedisti dello Stato islamico d’Iraq e del Levante. Così attivisti d’opposizione
descrivono i combattimenti in corso a Yabroud: conquistare la città vicina alla frontiera
libanese per le forze di Assad significherebbe impedire ai ribelli di ricevere qualsiasi
rifornimento da oltre confine e allo stesso tempo prendere il controllo dell’autostrada
che unisce Aleppo e Damasco alla costa, roccaforte degli alawiti. Fonti militari parlano
di una fuga dei ribelli e, secondo gli attivisti anti-regime, sarebbe rimasto ucciso
nei combattimenti uno dei comandanti locali di al-Nusra, Abu Azzam al Kuwaiti. Le
stesse fonti riferiscono che l’uomo sarebbe stato uno dei negoziatori nelle trattative
per la liberazione delle suore di Maaloula, avvenuta la scorsa settimana. Sul fronte
politico, mentre da parte governativa si pensa anche alla campagna elettorale per
il prossimo voto presidenziale, la Coalizione nazionale siriana, principale raggruppamento
dell’opposizione all’estero, chiede che si facciano “pressioni sul regime affinché
smetta di colpire i civili e acconsenta a un processo di transizione”.
Dal
punto di vista umanitario, la situazione resta preoccupante anche nella capitale Damasco.
Lo spiega Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Italiana, nell’intervista
di Luca Collodi:
R. – C’è una
finta normalità che regna a Damasco. Non si sente più il rumore di artiglieria ma
in realtà, come si esce dal centro città e si arriva nella periferia, le immagini
cambiano completamente: palazzi distrutti, abbandonati o occupati dai rifugiati. Gli
sfollati interni hanno raggiunto i sei milioni e vivono senza elettricità, né acqua
corrente. È la prima volta che ho provato su di me veramente il peso della vergogna,
dell’assenza della comunità internazionale.
D. – Quali sono i bisogni reali
della popolazione?
R. – Stiamo raggiungendo mensilmente, in questo momento,
circa 600 mila famiglie, che equivale a circa tre milioni di persone. Ma i bisogni
sono pari al doppio: cibo e medicine sono sicuramente la priorità assoluta. Poi, per
i bambini aggiungerei la serenità: sono stati strappati dalle loro case in maniera
violenta e sono accompagnati quotidianamente dai rumori della guerra. Abbiamo la responsabilità,
anche per il futuro, di aiutare a ricostruire un clima sociale di convivenza. Così
rischia di alimentarsi soltanto un clima di rabbia e di risentimento. Quello che noi
ci aspettiamo è un’implementazione, da entrambe le parti in conflitto, della possibilità
di accesso per gli aiuti umanitari. Vorrei ricordare che ci sono aree in cui ancora
oggi l’accesso non è consentito: abbiamo provato a visitare ed entrare a Yarmuk –
campo palestinese vicino Damasco – dove sono sotto assedio 20 mila persone, di cui
circa cinquemila sono bambini e dove sono, inoltre, morte 120 persone di fame. È una
tragedia nella tragedia che si sta consumando.
D. – Lei ha detto che sul piano
umanitario si registra un abbandono un disinteresse dei grandi Paesi occidentali.
È così?
R. – Sì, nel senso che la risposta che mi posso immaginare potrebbe
arrivare, ma come? Abbiamo fatto conferenze, abbiamo cercato aiuti ma il problema
è di accompagnare l’azione umanitaria concretamente. Ci sono partner con cui noi entriamo
in azione tutti i giorni – parlo anche come Italia – su cui dobbiamo spendere una
parola importante perché la responsabilità non è soltanto dei sirian,i ma anche di
chi è armato e di chi sostiene tutto quello che sta avvenendo.
D. – Le zone
cristiane hanno un minimo di normalità, o sono sotto attacco anch’esse?
R.
– In questo momento, sono apparentemente in quella tregua di cui parlavamo prima,
ma a Maalula ed in altre zone l’accesso è ancora difficile. È sempre una situazione
in divenire, in cui non c’è mai certezza degli aiuti. Quindi, è l’intera comunità
– quella cristiana, quella sunnita e sciita – a essere interessata. Non c’è una comunità
in particolare che stia soffrendo di più o di meno.
D. – Tra l’altro, ci sono
persone che sembrano essere ancora in mano a sequestratori anche da un punto di vista
religioso, di sacerdoti… Quindi, una situazione caotica anche da questo punto di vista…
R.
– Questo è quello a cui mi riferivo prima. Sicuramente, in questo conflitto c’è anche
una esasperazione del radicalismo religioso che non fa mai bene e porta a queste violenze
assolutamente ingiustificabili.