Elezioni anticipate in Serbia guardando all’Europa
Quasi sette milioni di elettori, oltre 3 mila candidati di 19 partiti per i 250 seggi
del parlamento unicamerale. Questi in sintesi i numeri delle elezioni anticipate che
si svolgono domani in Serbia. Archiviata la pagina dolorosa della guerra civile degli
anni ’90, il Paese guarda con fiducia al processo di adesione all’Europa, ma con gli
effetti negativi della crisi economica da fronteggiare. Oltre 700 gli osservatori
in queste consultazioni. Urne aperte domani dalle 7.00 alle 20.00. Da Belgrado, Iva
Mihailova:
Le elezioni
anticipate sono state richiesta dal leader del partito del progresso, il vicepremier
uscente Aleksandar Vučić, uomo forte della politica a Belgrado che ora vuole una maggioranza
assoluta. Gli ultimi sondaggi prevedono una vittoria netta del suo partito con il
44,6 per cento dei consensi. A distanza segue il partito socialista del premier uscente
Ivica Dacic con il 13,8 per cento, finora partner alleato dei progressisti. Molto
debole e divisa si presenta invece l’opposizione, con il partito democratico dell’ex-sindaco
di Belgrado, Dragan Djilas, accreditato al 9 per cento, ed il nuovo partito dell’ex-presidente
Boris Tadić, con l’8,5 per cento. L’economia, i posti di lavoro e la lotta contro
la criminalità organizzata sono stati al centro della campagna elettorale. Concordi
tutti i partiti sul traguardo principale della nazione: entrare nell’Unione Europea,
un processo iniziato nel gennaio di quest’anno.
Molte quindi le sfide che il
Paese balcanico dovrà affrontare a partire dall’integrazione europea fino alle scelte
economiche. Ma come arriva la Serbia all’appuntamento elettorale? Benedetta Capelli
lo ha chiesto a Matteo Tacconi, coordinatore del sito rassegna est.com, esperto
di Balcani:
R. - Arriva
con un risultato importante incassato, cioè l’avvio dei negoziati di adesione all’Unione
Europea: poi va precisato che un conto è avviarli e un conto è arrivare a un esito.
Si parla del 2020… C’è ancora tanta strada da fare! Però questo è un risultato che
la Serbia ha incamerato, tant’è che il voto anticipato è stato convocato dopo che
c’è stato l’accordo in tal senso. La questione del Kosovo invece rimane sullo sfondo,
ma rimane sempre un nodo. C’è stato un accordo sulla normalizzazione dei rapporti
tra i due Paesi, però la tensione nelle aree serbe del Kosovo - cioè nel nord del
Paese - rimane abbastanza forte; la minoranza serba in Kosovo è arrabbiata con Belgrado,
perché sostiene di essere stata abbandonata; e Belgrado sa bene che per portare avanti
il discorso con l’Europa deve cedere sul Kosovo. Poi c’è il discorso dell’Europa:
il presidente Nikolic, il vicepremier Vučić e i conservatori in Serbia hanno fatto
una scelta, hanno rotto con la tradizione antieuropea e puntano sull’Europa; che sia
sincera o opportunistica, in fin dei conti, non è molto utile discuterne, perché si
va avanti su quella strada. E poi c’è l’economia: lì - secondo me - è il vero fronte,
perché la Serbia è un Paese che, come tutti i Paesi della regione e dell’intera Europa,
ha attraversato delle fasi di recessione legate alla crisi globale e al fatto che
comunque dipende dagli investimenti dall’estero. Poi c’è anche un altro problema,
perché c’è stata una ripresa, il Pil va bene adesso e c’è il boom dell’export, ma
di tutto questo i serbi non beneficiano. L’export è fatto dalle aziende estere che
hanno investito in Serbia e non c’è una ricaduta sul fronte dei consumi interni e
dell’occupazione. Il tasso di senza lavoro è al 25%: un serbo su quattro non lavora!
D. – Quindi le sfide che dovrà affrontare il nuovo esecutivo si collocano
più che altro nella dimensione economica?
R. - Penso proprio di sì, considerando
anche che in tutta la regione negli ultimi anni - e da ultimo in Bosnia - si è visto
che c’è grosso fermento sociale: la gente protesta contro i governi. I Balcani sicuramente
sono meglio di come non fossero 5, 10, 15 o 20 anni fa, ma ci sono larghe fasce di
popolazione tenute fuori dalla crescita: non si sta creando una classe media. Visto
che la Serbia è rimasta per ora immune da queste tensioni, io credo che Vučić debba
un po’ guardarsi le spalle. Se ci sono tutti questi disoccupati, se c’è questa frustrazione
sociale, non è escluso che possa aprirsi anche un fronte in Serbia da questo punto
di vista. Secondo me, Vučić cercherà di tamponarlo dispensando un po’ di politiche
paternalistiche, magari alzando un po’ le pensioni, evitando che il Fondo Monetario
metta un po’ troppo il dito nella piaga. Però il rischio è che queste siano tutte
soluzioni palliative… Sicuramente la Serbia ha anche bisogno di uno shock riformista
e non sò quanto Vučić - sempre che vinca e che trionfi con una maggioranza assoluta
- riesca a garantirlo. Il punto è questo.
D. - Ma quali sono stati gli elementi
di forza che hanno creato consenso proprio intorno a Vučić?
R. - Anzitutto
è un uomo forte e in un Paese dove c’è una sindacalizzazione relativa, le conquiste
sociali sono relative e che rimane ancora un’idea un po’ socialista che lo Stato debba
dare, che lo Stato debba aiutare, l’uomo forte, con una verve paternalistica prende
voti. Poi c’è anche il discorso del risultato raggiunto con l’Europa: alla fine è
un dato di fatto e sicuramente non tutti i serbi credono a questa integrazione, ma
la maggioranza sì, e avendo avviato i negoziati, questo è un punto che va a vantaggio
di Vučić.