Neurologia: la coscienza non si esaurisce nell'efficienza piena del cervello
La dignità della vita umana non si misura dalle capacità fisiche, psichiche o intellettuali,
ma è legata alla stessa esistenza in vita. Lo dimostrano gli studi condotti da Steven
Laureys, neurologo belga di fama mondiale, intervenuto nei giorni scorsi a Roma al
convegno “Dal cervello alla coscienza”, organizzato dall’Associazione Scienza e Vita.
Recenti studi neurologici dimostrano come l’impossibilità di produrre atti volontari
non costituisca la fine o la sospensione della coscienza. Significative le ripercussioni
nel dibattito sul fine vita. Paolo Ondarza ne ha parlato con Paola Ricci
Sindòni , presidente di Scienza e Vita:
R. - Abbiamo
voluto provare ad interpellare la scienza in primo luogo, abbiamo chiamato Steven
Laureys, uno dei pionieri che ha indagato per cogliere se i malati con gravi patologie
cerebrali avessero percezioni sensoriali. Quale è stato l’elemento chiave della risposta
di Laureys? Bisogna intanto abbandonare linguisticamente l’idea che chi è ammalato
di una patologia cerebrale è in stato vegetativo; ormai la definizione scientifica
è “stato di veglia non responsivo”. Questo è un passaggio epocale. L’idea è che il
malato, anche quando ha queste gravi patologie, è dotato di una coscienza minima anche
se non risponde. Quindi, lo stato è sempre di veglia di coscienza ma questa coscienza
non può dare risposte; anche se Laureys ha dimostrato che in alcuni malati, anche
in coma profondo, si è poi riusciti ad intercettarli anche semplicemente con la domanda
“sì” o “no”, o attraverso cenni degli occhi, delle mani. Comunque, anche se non attraverso
argomentazioni più sofisticate, il malato rispondeva. Credo, che questo debba far
molto pensare.
D. – La coscienza, potremmo dire, non si esaurisce nella funzionalità,
nell’efficienza piena del cervello, va oltre il cervello...
R. – Certo, è giusto.
Non si può dire che il cervello è la coscienza, è una visione riduttiva. Se in un
malato il cervello è ormai privato di alcune sue funzioni, non si può dire che quindi
non c’è più coscienza. D’altro canto, bisogna anche rifiutare modelli dualistici,
dove la coscienza è la parte più “alta, aristocratica, più nobile” della persona ed
il cervello invece è una cosa più legata all’aspetto di tipo somatico. Non sono più
proponibili queste visioni dualiste. Ciò non toglie che bisogna lavorare molto su
questi circuiti virtuosi che invece esistono e che lo scienziato – che non ha preoccupazioni
etiche, né teoriche – mette così bene in evidenza. Dunque, ci vuole molta prudenza
prima di ingaggiare battaglie ideologiche che spesso, come nel nostro territorio nazionale
qualche anno fa, hanno lacerato la società civile attraverso risposte semplicistiche.
D.
– Oggi, anche grazie a studi scientifici, medici si può dire che la fine della consapevolezza,
della capacità di produrre atti “volontari” non coincide necessariamente con la fine
della coscienza...
R. – E’ assolutamente così. Pensiamo, senza far riferimento
ai malati gravi, a tutto l’ampio raggio dei disabili, per esempio i malati psichici
che vengono ritenuti privi di coscienza perché non hanno la possibilità di rispondere.
Eppure, sono persone in stato di veglia, che vivono dentro il proprio mondo psicotico
ma sempre un loro mondo. Quindi, occorre intercettare quel mondo...
D. – Da
questa riflessione le ricadute sulla bioetica, in particolare sul dibattito relativo
agli stati vegetativi e sul fine vita, sono notevoli...
R. – Sono notevoli
ed ampi. Del resto, anche i bambini piccoli sono in stato di veglia non responsivi
perché non hanno ancora maturato la capacità di reagire, ma questo non vuol dire che
non sono persone e che non hanno una loro dignità di persone!