2014-03-09 14:04:23

Neurologia: la coscienza non si esaurisce nell'efficienza piena del cervello


La dignità della vita umana non si misura dalle capacità fisiche, psichiche o intellettuali, ma è legata alla stessa esistenza in vita. Lo dimostrano gli studi condotti da Steven Laureys, neurologo belga di fama mondiale, intervenuto nei giorni scorsi a Roma al convegno “Dal cervello alla coscienza”, organizzato dall’Associazione Scienza e Vita. Recenti studi neurologici dimostrano come l’impossibilità di produrre atti volontari non costituisca la fine o la sospensione della coscienza. Significative le ripercussioni nel dibattito sul fine vita. Paolo Ondarza ne ha parlato con Paola Ricci Sindòni , presidente di Scienza e Vita:RealAudioMP3

R. - Abbiamo voluto provare ad interpellare la scienza in primo luogo, abbiamo chiamato Steven Laureys, uno dei pionieri che ha indagato per cogliere se i malati con gravi patologie cerebrali avessero percezioni sensoriali. Quale è stato l’elemento chiave della risposta di Laureys? Bisogna intanto abbandonare linguisticamente l’idea che chi è ammalato di una patologia cerebrale è in stato vegetativo; ormai la definizione scientifica è “stato di veglia non responsivo”. Questo è un passaggio epocale. L’idea è che il malato, anche quando ha queste gravi patologie, è dotato di una coscienza minima anche se non risponde. Quindi, lo stato è sempre di veglia di coscienza ma questa coscienza non può dare risposte; anche se Laureys ha dimostrato che in alcuni malati, anche in coma profondo, si è poi riusciti ad intercettarli anche semplicemente con la domanda “sì” o “no”, o attraverso cenni degli occhi, delle mani. Comunque, anche se non attraverso argomentazioni più sofisticate, il malato rispondeva. Credo, che questo debba far molto pensare.

D. – La coscienza, potremmo dire, non si esaurisce nella funzionalità, nell’efficienza piena del cervello, va oltre il cervello...

R. – Certo, è giusto. Non si può dire che il cervello è la coscienza, è una visione riduttiva. Se in un malato il cervello è ormai privato di alcune sue funzioni, non si può dire che quindi non c’è più coscienza. D’altro canto, bisogna anche rifiutare modelli dualistici, dove la coscienza è la parte più “alta, aristocratica, più nobile” della persona ed il cervello invece è una cosa più legata all’aspetto di tipo somatico. Non sono più proponibili queste visioni dualiste. Ciò non toglie che bisogna lavorare molto su questi circuiti virtuosi che invece esistono e che lo scienziato – che non ha preoccupazioni etiche, né teoriche – mette così bene in evidenza. Dunque, ci vuole molta prudenza prima di ingaggiare battaglie ideologiche che spesso, come nel nostro territorio nazionale qualche anno fa, hanno lacerato la società civile attraverso risposte semplicistiche.

D. – Oggi, anche grazie a studi scientifici, medici si può dire che la fine della consapevolezza, della capacità di produrre atti “volontari” non coincide necessariamente con la fine della coscienza...

R. – E’ assolutamente così. Pensiamo, senza far riferimento ai malati gravi, a tutto l’ampio raggio dei disabili, per esempio i malati psichici che vengono ritenuti privi di coscienza perché non hanno la possibilità di rispondere. Eppure, sono persone in stato di veglia, che vivono dentro il proprio mondo psicotico ma sempre un loro mondo. Quindi, occorre intercettare quel mondo...

D. – Da questa riflessione le ricadute sulla bioetica, in particolare sul dibattito relativo agli stati vegetativi e sul fine vita, sono notevoli...

R. – Sono notevoli ed ampi. Del resto, anche i bambini piccoli sono in stato di veglia non responsivi perché non hanno ancora maturato la capacità di reagire, ma questo non vuol dire che non sono persone e che non hanno una loro dignità di persone!







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