Sud Sudan: violenze a Juba. Una suora: Dio ci è vicino, è la speranza della gente
Nuovi scontri a Juba, in Sud Sudan, dopo le violenze scoppiate a metà dicembre tra
le truppe governative del presidente Salva Kiir e i ribelli dell’ex vice presidente
Riek Machar, già da tempo in disaccordo sul controllo dell’esecutivo e del partito
Splm, il Movimento per la liberazione del popolo sudanese. Stavolta, i combattimenti
sarebbero stati provocati da dissidi interni all’esercito, forse legati a stipendi
non pagati. Cinque militari hanno perso la vita. La situazione, dunque, rimane ancora
tesa nel giovane Stato africano, che ha proclamato l’indipendenza da Khartoum nel
2011. Per una testimonianza da Juba, ascoltiamo suor Anna Gastaldello, missionaria
comboniana da 15 anni in Sudan e Sud Sudan. L’intervista è di Giada Aquilino:
R. – Oggi c’è
calma, la gente è tornata alle proprie attività, anche se ci sono ancora profughi
e sfollati che hanno trovato rifugio nella cattedrale di Juba, Santa Teresa. Stamattina
sono andata là e ce n’erano un centinaio. Il parroco mi ha detto che ieri sera erano
molti, poi sono tornati a casa.
D. – Ieri, invece, ci sono stati scontri?
R.
– Ci sono stati scontri tra soldati della Splm: sono andati a prendere la loro paga,
alcuni di loro però non hanno ricevuto i soldi, per motivi che non si conoscono. Sono
scoppiati alterchi e hanno cominciato a spararsi addosso.
D. – Combattimenti
tra truppe fedeli al presidente Salva Kiir e quelle ribelli dell’ex presidente Riek
Machar se ne segnalano?
R. – Qui a Juba no, ma in altre parti del Paese sì,
specialmente nelle zone petrolifere.
D. – Ci sono notizie che, per esempio,
a Malakal, nell'Alto Nilo, sono state evacuate molte persone...
R. – Malakal
è sotto il controllo dei ribelli. Praticamente è vuota.
D. – Ma perché, di
fatto, da metà dicembre la violenza è divampata così prepotentemente in Sud Sudan?
R.
– La risposta è difficile. Penso che alla base di tutto ci sia una corsa al potere:
all’interno del movimento Splm/Spla c’erano contrasti molto forti che non si sono
risolti con il dialogo, per cui un gruppo – quello di Riek Machar – ha preferito la
rivolta armata.
D. – Voi operate a contatto con le popolazioni sud sudanesi:
quale messaggio diffondete, soprattutto dopo le ultime violenze?
R. – Abbiamo
cercato di rimanere con la gente il più a lungo possibile, finché è stato possibile,
in tante comunità. Dopo siamo arrivati ad un punto per cui non si poteva più rimanere
in certe zone: le nostre comunità sono state attaccate, derubate. Il messaggio che
cerchiamo di dare alla gente è che Dio è vicino a loro anche in questo momento così
difficile. Cerchiamo di portare un messaggio di speranza. Diciamo alle persone: la
croce che state vivendo adesso, porterà alla resurrezione. Poi, c’è anche il messaggio
della riconciliazione, del volersi bene, del trattarsi come fratelli e sorelle. Infatti,
tra la popolazione civile non ci sono grandi problemi, i problemi grossi sono a livello
di esercito. Ci sono state anche azioni brutte, come lotte tribali, dove alcune persone
sono state uccise solo perché appartenevano ad un certo gruppo tribale. Però, tra
la popolazione civile davvero non c’è questo problema. Penso che i problemi debbano
essere risolti a livello di ribelli e governo: i dialoghi di pace al momento sono
stati interrotti e riprenderanno il 20 marzo. Il problema quindi è di tipo politico
e, se non verrà risolto, continuerà ad esistere e la gente continuerà a soffrire.
La speranza è che il Signore riesca a cambiare i cuori dei leader locali, affinché
guardino veramente al bene della gente, più che ai loro interessi politici.