Emergenza umanitaria in Sud Sudan. Msf: civili bloccati nei combattimenti
Sempre più drammatica la situazione in Sud Sudan. L’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati
denuncia la fuga in Kenya di oltre 18 mila cittadini sud sudanesi dallo scoppio degli
scontri tra le forze del presidente Salva Kiir e i ribelli fedeli all'ex vicepresidente,
Riek Machar. Sempre secondo l’Acnur, hanno chiesto tutti asilo politico. Intanto,
dall’interno del Paese giungono notizie drammatiche: circa 150 civili sono annegati
nel fiume Nilo mentre tentavano di fuggire dai combattimenti. Secondo testimoni i
ribelli, hanno sparato alle loro barche mentre cercavano di attraversare il fiume
e questi sono saltati in acqua, annegando. Altre persone, inoltre, sono state uccise
mentre cercavano rifugio in ospedali e in Chiese. Sull’emergenza in atto, soprattutto
sul fronte umanitario, Salvatore Sabatino ha intervistato Stefano Zannini,
responsabile del supporto alle operazioni per Medici senza Frontiere Italia:
R. – Continuiamo
ad assistere ai combattimenti e alle conseguenze di questi combattimenti: quindi,
migliaia di persone che si muovono, spesso a piedi, viaggi molto lunghi, molti muoiono
in cammino perché non ce la fanno. I livelli di bisogno sono estremamente importanti
sia da un punto di vista medico che da un punto di vista alimentare.
D. – Si
ha l’impressione che i civili siano, di fatto, abbandonati a se stessi: è davvero
così, o comunque c’è una sorta di tutela nei loro confronti?
R. – Quello che
vediamo noi è che la popolazione civile è intrappolata in un conflitto: intrappolata
nel senso che molte città sono oggetto di attacchi e contrattacchi da parte delle
forze governative e delle forze ribelli e la popolazione civile non ha, come unica
possibilità, che quella di fuggire nella boscaglia e cercare riparo. Nella boscaglia,
però, rimane esposta a rischi medici come la malaria o altre patologie legate all’acqua
contaminata. Non ha cibo e non ha nemmeno generi di prima necessità, che le permettano
di sopravvivere in condizioni dignitose.
D. – Avete stimato che quasi 300 mila
persone non hanno accesso alle cure, e la situazione di caos generale ovviamente produce
anche un sempre maggiore rischio-epidemie…
R. – Sì, questo è vero, tanto per
le persone che si trovano nella boscaglia, quanto per le persone che si trovano all’interno
dei campi sfollati del Sudan del Sud. Stiamo registrando un numero crescente di casi
di morbillo, per esempio a Juba, così come altre patologie come la malaria e la dissenteria.
Soprattutto, la malaria è estremamente preoccupante perché il Paese negli ultimi tre
anni ha registrato un continuo incremento del numero di casi fino a livelli mai registrati
negli anni precedenti.
D. – Anche per i vostri operatori presenti in Sud Sudan
– questo lo ripetete da tempo – è diventato praticamente impossibile lavorare, perché
non è garantita la sicurezza…
R. – E’ vero: la sicurezza, purtroppo, tanto
dei pazienti quanto degli operatori delle strutture medico-sanitarie, non è garantita.
Ahimé, nelle ultime tre settimane abbiamo assistito a diversi attacchi, saccheggi
e distruzioni, anche delle nostre strutture, ed è una situazione che non può che peggiorare,
perché se anche le poche organizzazioni che riescono a lavorare in prima linea e a
fornire aiuti di base vengono esposte a questo tipo di attacchi, la situazione inevitabilmente
è destinata a diventare peggiore in tempi molto brevi.
D. – Di cosa c’è maggiormente
bisogno, in questo momento?
R. – Direi che tra i bisogno principali ci sono
sicuramente l’accesso alle cure mediche, l’alimentazione, quindi cibo e acqua: tutto
quello che è necessario perché queste persone possano sopravvivere.