Onu: in Somalia un milione di sfollati interni e un milione di profughi nei Paesi
vicini
Sono un milione gli sfollati interni in Somalia e un altro milione di persone ha trovato
rifugio nelle Nazioni vicine. Due milioni sono invece i somali che non hanno cibo
a sufficienza. Sono i dati presentati dall'Ufficio Onu per il coordinamento degli
affari umanitari, il cui responsabile delle operazioni, John Ging, ha appena effettuato
una visita nel Paese africano, colpito solo tre anni fa da una terribile carestia
che ha causato 260mila morti. A complicare la situazione “estremamente fragile“, ha
sottolineato Ging, la scarsa sicurezza sul territorio. Dopo anni di anarchia e sanguinose
azioni da parte dei miliziani islamici Shabaab, non solo sul territorio somalo ma
anche in altri Stati africani, a dicembre si è insediato il nuovo premier, Abdiweli
Sheikh Ahmed. Della situazione in Somalia parla mons. Giorgio Bertin, vescovo
di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, intervistato da Giada Aquilino:
R. - Questa
è la situazione degli ultimi tre anni, non è dunque una novità. Probabilmente al mondo
dei mass media sembrava che, con la tentata rinascita del nuovo Stato, la situazione
fosse cambiata. Invece no, perché le istituzioni somale - nate un anno e mezzo fa
- non sono ancora in grado di assicurare una governabilità, soprattutto nel centro-sud
della Somalia. Poi c’è la questione della sicurezza: ci sono ancora molte zone nelle
mani degli oppositori, in particolare degli Shabaab, e questo chiaramente non incoraggia
i rifugiati a tornare in Somalia, soprattutto dal Kenya e dall’Etiopia; non incoraggia
nemmeno gli sfollati interni a fare rientro nelle zone di origine.
D. - Oltre
alle ragioni di sicurezza, quali altri motivi sono alla base di queste migrazioni?
R.
- Negli ultimi tre anni i motivi sono stati la siccità, che ha colpito in un modo
drammatico la Somalia. Ma bisogna anche tornare molto indietro, alla frantumazione
dello Stato somalo che ha spinto moltissimi abitanti a cercare - oltre i confini dello
Stato oppure, per gli interni, oltre i confini delle loro regioni - un luogo di rifugio
per poter sopravvivere.
D. - Quando si parla di rischi di anarchia anche in
altri Paesi, viene evocato spesso il caso della Somalia. Per dove passa la via della
rinascita?
R. - Passa attraverso un doppio sforzo: uno sforzo interno delle
popolazioni, che deve essere coadiuvato dalla Comunità internazionale: cioè la Comunità
internazionale da sola non basta e queste Nazioni, come la Somalia, da sole non possono
rimettersi insieme. C’è bisogno di un approccio comune di lungo termine tra la Comunità
internazionale e gli abitanti del posto.
D. - Ed il ruolo della Chiesa locale?
R.
- A causa dell’insicurezza, a causa di una forma estrema di islamismo, noi non possiamo
operare molto apertamente, però è chiaro che continuiamo con un’opera umanitaria,
soprattutto attraverso la nostra Caritas. Inoltre, abbiamo altri contatti meno visibili:
proprio questa mattina ho ricevuto l’invito da parte di una persona in Kenya che vorrebbe
lavorare di più nello sforzo di riconciliazione all’interno della Somalia e a cui
ho dato il mio benvenuto. Bisognerà trovare interlocutori validi.