Roma. Manifestazione dei "No Cie": chiudiamo Ponte Galeria
Manifestazione sabato pomeriggio dei movimenti “No Cie” presso il Centro di identificazione
ed espulsione di Ponte Galeria in provincia di Roma. Motivo dell’iniziativa la richiesta
della chiusura del Centro così come degli altri ancora in funzione in Italia. I 42
immigrati ospiti della struttura hanno intanti sospeso lo sciopero della fame iniziato
venerdì, a seguito del rimpatrio di due di loro che, nel dicembre scorso, avevano
partecipato alla protesta delle “bocche cucite”. Sul clima che si vive all’interno
del Cie, Adriana Masotti ha sentito don Emanuele Giannone, direttore
della Caritas della diocesi di Porto Santa Rufina, cui appartiene Ponte Galeria:
R. – In questi
giorni, in particolare c’è una grande tristezza che è anche il mio stato d’animo prevalente,
per il fatto che stanno rimpatriando i ragazzi, conosciuti come i ragazzi di Lampedusa:
sono soprattutto marocchini, hanno avuto il diniego della protezione internazionale
e in questi giorni vengono rimpatriati. Erano venuti perché costretti ad andar via
dalla Libia, dove stavano lavorando, per avere condizioni di lavoro migliore. In Italia,
hanno solo trovato sbarre, non hanno mai capito perché non abbiamo mai dato loro una
possibilità di lavoro… Quindi, c'è tristezza tra gli ospiti, che non li possono neanche
salutare, perché le squadre di polizia prelevano questi ragazzi senza che si sappia
in quale momento. Peggio di un condannato a morte.
D. – Quello che lei sta
raccontando è un motivo in più che giustifica la richiesta di chiusura dei Centri
di identificazione e di espulsione come quello di Ponte Galeria…
R. – In questi
Centri, un giovane di 20 anni che arriva per lavorare viene invece annullato nella
propria dignità. Quindi, questi Centri, da quando sono aperti, hanno creato l’idea
che un uomo possa essere trattato in questo modo. Poi, se vogliamo portare il discorso
su un piano normativo, allora io invito i responsabili a dire l’efficacia di questa
struttura di fronte a costi di milioni di euro per sostenerli. Quindi, sono strutture
che vanno chiuse per motivi umani, ma anche perché inefficaci e inefficienti. E’ chiaro
che una legge che prevedeva quote d’ingresso e che invece non è mai stata attuata
– nel senso che non c’è mai stata una cadenza regolare con la quale si siano favoriti
percorsi di entrata legale sul territorio italiano – una legge che prevede che comunque
un immigrato, anche dopo lunghi anni, dopo dieci anni sul territorio nazionale in
cui non abbia commesso reato e in cui abbia sempre lavorato legalmente non abbia ancora
acquisito diritti definitivi, è chiaro che espone sempre gli immigrati a pericoli
che li portano poi a dover subire procedimenti di espulsione. Però, anche qui dobbiamo
dire con chiarezza che al momento le norme italiane che governano regolamento l’immigrazione,
sono norme discriminatorie.
D. – In che modo la Chiesa locale, attraverso voi
della Caritas o attraverso altre realtà, riesce ad essere vicina agli “ospiti” del
Cie di Ponte Galeria?
R. – Lei tenga conto che nel Cie di Ponte Galeria per
la Prefettura di Roma è pericoloso anche introdurre una biro, per cui la nostra opera
è essenzialmente un’opera di presenza: la mia, in particolare, almeno per i cristiani,
di sacerdote che celebra i sacramenti – la Santa Messa, la preghiera e c’è un desiderio
immenso di pregare tra gli ospiti del Cie – e quindi andando al Cie certo le occasioni
per conoscersi, per fermarsi a parlare e a stare accanto a questi amici, è l’unica
opera che posso svolgere. A volte, si assiste impotenti, sembra di stare sul Calvario,
è come se Cristo lì ci chiedesse solo di stare accanto a questi ragazzi che vivono
queste situazioni paradossali. Il problema del Cie non è un problema di struttura,
di come si mangia e come si dorme. Il problema è un problema umano. Questi centri,
così come attualmente sono, sono proprio contro la persona, contro la dignità della
persona, perché l’annientano anche nelle cose minime: come passare il tempo, come
poter fare qualcosa, poter studiare, poter pensare al futuro… L’opinione pubblica,
per anni – e spero che invece ultimamente possa maturare un’altra consapevolezza –
non si è interessata nei riguardi della situazione di queste persone perché, purtroppo,
non li sentiamo come nostri fratelli.