Benedetto XVI e la rinuncia, il mese più lungo di una grande anima
L’11 febbraio di un anno fa, la Chiesa e il mondo venivano scossi dalla rinuncia di
Benedetto XVI al ministero petrino. Quello che sulle prime fu un annuncio accolto
con stupore e grande turbamento, nei giorni successivi venne lentamente compreso come
un atto di lungimirante sapienza, possibile – nella sua sostanziale unicità – solo
a un uomo e a un Pontefice di straordinaria intelligenza spirituale. Alessandro
De Carolis rievoca in questo servizio le tappe che hanno scandito un mese ormai
passato alla storia:
“Fratres
carissimi, non solum propter tres canonizationes ad hoc Consistorium vos convocavi…”.
Il
latino è una lingua morta per il mondo da centinaia d’anni, e ormai poco usata anche
nella Chiesa. Per questo, uno dei più clamorosi annunci della storia universale fluttua
per diversi minuti in una bolla di muta indecifrabilità. Quei lemmi sommessi, pronunciati
con una quiete appena venata di tensione – che parlano di decisionem magni momenti
pro Ecclesiae vitae communicem, di una “decisione di grande importanza di vita
della Chiesa” – rimangono sospesi per lunghissimi secondi su una terra di nessuno
in attesa che qualcuno li faccia propri. Sono passate da poco le 11.30 e chi in quell’11
febbraio 2013 ha la ventura di essere in ascolto – i cardinali che attorniano Benedetto
XVI nella Sala del Concistoro, o i pochi giornalisti che seguono la scena dalle immagini
e l’audio in bassa frequenza – vive per qualche istante l’enigma di coloro che, dalla
riva dell’oceano, osservano senza capire il ritrarsi dell’acqua che lascia scoperto
il fondo. Poi, lo tsunami arriva:
“Conscientia mea iterum atque iterum coram
Deo explorata ad cognitionem certam perveni vires meas ingravescente aetate non iam
aptas esse ad munus Petrinum aeque administrandum…”.
L’impatto dello tsunami
lascia esterrefatti. I media si arroventano, nel web si twitta all’impazzata,
si rovesciano le prime pagine dei siti. Benedetto XVI “si è dimesso” è la prima formulazione
che rimbalza ovunque e che cerca di spiegare l’inspiegabile con il linguaggio di altri
mondi, perché nessuno ha gli strumenti adatti per dare razionalmente conto del mai
visto. Emotiva è la prima informazione, come la reazione di chiunque. L’incredulità
è massima e sull’onda dello sconcerto in molti traballano anche certezze indiscusse.
Finché, compressa per 48 ore, la lava erompe mercoledì 13. Il “collo” del vulcano
è l’udienza generale in Aula Paolo VI:
“Cari fratelli e sorelle, come sapete,
ho deciso…(applausi)… Grazie per la vostra simpatia… (applausi)… Ho deciso
di rinunciare al ministero che il Signore mi ha affidato il 19 aprile 2005. Ho fatto
questo in piena libertà per il bene della Chiesa, dopo aver pregato a lungo ed aver
esaminato davanti a Dio la mia coscienza, ben consapevole della gravità di tale atto,
ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino
con quella forza che esso richiede”.
Quel mercoledì coincide con l’inizio
della Quaresima e la folla si trasferisce nel pomeriggio nella Basilica vaticana per
il rito delle Ceneri. Così, nel magma dei sentimenti confusi, il pizzico di polvere
che a un tratto scurisce la chioma candida del Papa diventa in chi guarda un simbolo
più grande di se stesso: esprime con un’immagine la certezza che in molti inizia a
farsi strada e cioè che la rinuncia di Benedetto XVI sia, al di là di ogni considerazione,
un gesto di eccezionale umiltà. Lo affermerà al termine di quella cerimonia un commosso
cardinale Bertone e ancor più il successivo, interminabile, emozionante applauso che
l’assemblea, alzandosi in piedi, tributa al suo Pastore:
“Grazie per averci
dato il luminoso esempio di semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore, un
lavoratore, però, che ha saputo in ogni momento realizzare ciò che è più importante:
portare Dio agli uomini e portare gli uomini a Dio”.
È giusto, è sbagliato.
Mentre il duello delle opinioni continua a scaldare salotti televisivi e marciapiedi
nell’ardua impresa di “leggere” nel cuore del Papa, è lo stesso Benedetto XVI a distillare
col trascorrere dei giorni i motivi profondi che reggono la sua decisione. Ascoltarlo
nei suoi appuntamenti pubblici equivale un affacciarsi su brevi scorci del lungo e
solitario percorso compiuto dalla sua anima di fronte e accanto a Dio. Un viaggio
in cui l’ago della bussola sta nella misura delle parole utilizzate, come quelle –
rivelatrici – che il Papa pronuncia durante l’incontro con i parroci romani, giovedì
14:
“Anche se mi ritiro adesso, in preghiera sono sempre vicino a tutti
voi e sono sicuro che anche tutti voi sarete vicini a me, anche se per il mondo rimarrò
nascosto”.
“Ritiro”, “preghiera”, nascosto”. Dallo sconquasso di uno tsunami
che sembrava aver disintegrato la casa sulla roccia, e la verità sul suo primo occupante,
il paesaggio gradualmente scopre un suo nuovo equilibrio. È vero che parte del circuito
mediatico continua banalmente a insistere su complotti e fughe – perché tanti sanno
vellicare con uno scandalo la “pancia” di un pubblico, meno stimolare la sua intelligenza.
Tuttavia, nella Chiesa il gesto di Benedetto XVI appare sempre più come frutto della
solidità di fede che ha sempre distinto i passi del lavoratore della Vigna. E il Papa
rafforza questa certezza alla sua ultima apparizione dalla finestra del suo studio.
È l’Angelus di domenica 24 febbraio:
“Il Signore mi chiama a ‘salire sul
monte’, a dedicarmi ancora di più alla preghiera e alla meditazione. Ma questo non
significa abbandonare la Chiesa, anzi, se Dio mi chiede questo è proprio perché io
possa continuare a servirla con la stessa dedizione e lo stesso amore con cui l’ho
fatto fino ad ora, ma in un modo più adatto alla mia età e alle mie forze”.
L’umile
lavoratore della Vigna lascia i filari e si raccoglie in ginocchio sullo sfondo del
campo, perché ha compreso – nel suo intenso ruminare la scelta tra Dio e la sua coscienza
– che anche un Vicario di Cristo ha più di un modo per curare il vigneto del Vangelo:
“Non
abbandono la Croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto
più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera
resto, per così dire, nel recinto di San Pietro”.
Queste parole risuonano
all’ultima udienza generale in Piazza San Pietro. Di fronte agli occhi del Papa si
staglia la vista di 150 mila persone. Un muro umano – dilatato dalle tv internazionali
– al quale ancora una volta, e per l’ultima volta, Benedetto XVI offre le rassicurazioni
di un maestro di fede, in cambio dei dubbi di chi ancora fatica ad accettare:
“Ho
sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della
Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua e il Signore non la lascia affondare; è Lui
che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così
ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”.
Il
congedo più lungo della Chiesa nel mese più breve del calendario comincia davanti
a una platea oceanica: i giornalisti già a Roma sono 3.650 di 61 nazioni e appartengono
a 968 testate di 24 lingue. Le immagini in diretta e in streaming di quel 28
febbraio si accendono a metà mattinata per quasi non spegnersi più fino a sera. Si
comincia con una Sala Clementina gremita di cardinali, 144, fra i quali Papa Benedetto
si pone già come quel servitore che ha scelto di essere:
“Continuerò ad
esservi vicino con la preghiera, specialmente nei prossimi giorni, affinché siate
pienamente docili all’azione dello Spirito Santo nell’elezione del nuovo Papa. Che
il Signore vi mostri quello che è voluto da Lui. E tra voi, tra il Collegio dei cardinali,
c’è anche il futuro Papa, al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza
e obbedienza”.
La scena riprende verso le 17, quando il mondo segue metro
per metro un itinerario che qualche commentatore paragona, per impatto e forza di
attrazione, allo sbarco sulla Luna: Benedetto XVI che lascia l’appartamento pontificio,
il cardinale Comastri che lo saluta a capo scoperto e chino, alle sue spalle le lacrime
che rigano il viso di mons. Gänswein. E poi l’imbarco sull’elicottero bianco, il volto
che rimpicciolisce nel riquadro del finestrino, e quel volo sul cielo di Roma, carico
di suggestioni, che pare lentissimo e regala un che di angelico al commiato del suo
Vescovo. Che una volta al balcone, davanti alle migliaia che lo attendono pigiati
da ore sulla piccola piazza di Castel Gandolfo, esce di scena con la stessa discrezione
con cui otto anni prima si affacciava alla Loggia centrale di San Pietro:
"Sono
semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa
terra. Ma vorrei ancora, con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera,
con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori, lavorare per il bene comune
e il bene della Chiesa e dell’umanità. E mi sento molto appoggiato dalla vostra simpatia.
Grazie, buona notte!".
“Buona notte”. La vibrazione delle due parole che
chiudono il Pontificato si perde nel brusio della folla, che a differenza di tante
altre occasioni nello stesso posto non smobilita, anzi se possibile ingrossa. Gli
sguardi si abbassano di qualche metro, dal balcone al grande portone spalancato, e
ha inizio un countdown mai immaginato. Due giri e mezzo di lancette e alle
20 le due ante iniziano a ruotare sui cardini fino a serrarsi, conferendo all’attimo
una struggente simbolicità. Il picchetto delle Guardie Svizzere smonta, non c’è più
il Papa da proteggere.
Resta però Benedetto XVI. E resta l’eco del suo “buona
notte”. Forse perché non poteva esserci altro modo di congedarsi per il Papa che ha
voluto chiudersi con Dio nel chiostro del cuore, per spalancare alla Chiesa una nuova
stagione e donarle la forza di un nuovo inizio. E soprattutto perché colpisce che,
appena tredici giorni più tardi – quasi che a legarli sia il filo di una regia invisibile
– il nuovo Pontificato esordisca col medesimo stile, quello della più assoluta, disarmante
familiarità:
(voce Papa Francesco) “Fratelli e sorelle, buonasera!”.