Il "gigantismo" delle Olimpiadi. L'analisi dell'economista Luigino Bruni
Le Olimpiadi stanno diventando sempre più esempi di “gigantismo”, visti gli enormi
costi sostenuti dalle città che le ospitano. Non sottovalutando l’aspetto di rilancio
economico per interi Paesi, sicuramente queste spese di gestione, ritenute da più
fronti eccessive, escludono dall’organizzazione i Paesi più poveri. Salvatore Sabatino
ne ha parlato con Luigino Bruni, docente di Economia presso la Lumsa:
R. – Il gigantismo
è una delle malattie dell’attuale stagione dei grandi eventi sportivi. Basti pensare
a cosa sta avvenendo in Brasile in questo periodo, dove c’è un movimento che non vuole
la Coppa del mondo, abbinando questo evento giustamente ai grandi business e sempre
meno allo sport. Ed uno degli effetti di tutto questo è che i Paesi più poveri rimangono
sistematicamente esclusi da queste possibilità.
D. – Non bisogna dimenticare
che c’è un esempio reale, di economia reale, l’economia greca, poi finita in dissesto,
che ha avuto ripercussioni negative enormi dopo le Olimpiadi di Atene...
R.
– Sì, se guardiamo l’evidenza empirica di questi ultimi anni, dal dopoguerra ad oggi,
è ambivalente l’effetto netto dei grandi eventi sul Pil nazionale. In certi casi è
stato positivo e in altri casi è stato negativo. Ad esempio a Barcellona e Los Angeles
le ricadute sono state positive. Non c’è, quindi, un segno sicuro. Questo, però, è
solo l’aspetto economico in senso stretto. In realtà, noi sappiamo che la vera malattia
del nostro tempo è che stiamo trasformando questi giochi, che erano nati come grande
evento civile e non a scopo di lucro, in grandi intraprese di tipo commerciale e capitalistico.
E questo ha degli effetti sulla cultura sportiva dei giovani, dei bambini, che sta
cambiando radicalmente.
D. – La grande esclusa dall’organizzazione dei Giochi
olimpici, in questo momento, è e continua ad essere l’Africa, che di fatto potrebbe
anche essere pronta ad ospitare i giochi, ma in che modo, secondo lei?
R. –
Ma, innanzitutto, dovrebbero essere giochi distribuiti su più nazioni. Dovrebbe essere
un’Olimpiade a rete, con un Paese che magari fa da pivot, ma con una rete nazionale
dove si svolgano le Olimpiadi e non solo in un’unica città o un unico Paese, come
invece accade ora. E soprattutto dovremmo immaginare una gestione molto più partecipata,
con un’enorme attenzione agli effetti della corruzione. Lei capisce, infatti, che
quando queste macchine da guerra arrivano in Paesi molto fragili, dal punto di vista
istituzionale, chi arriva a gestire gli appalti sono le varie mafie locali, non sicuramente
attività che producono sviluppo inclusivo. Io, però, non vedrei male, anzi vedrei
molto bene, un’Olimpiade tra qualche anno in Africa su più Paesi, con uno stile anche
nuovo, meno business e più sport come bene nazionale, come bene civile.
D.
– E’ ancora possibile, secondo lei, oggettivamente fare un passo indietro, mettendo
al centro il messaggio di de Coubertain, il fondatore delle Olimpiadi moderne, tutto
centrato su pace, fratellanza ed internazionalismo?
R. – Ma io me lo auguro
con tutto il cuore, per due ragioni principali. Innanzitutto, noi stiamo assistendo
ad un uso molto scorretto delle metafore sportive nell’economia. C’è un uso dell’idea
delle metafore dello sport, del vincere, della gara, di persone vincenti, di persone
perdenti, di giochi, che sta invadendo il linguaggio economico. Stiamo utilizzando
male l’idea di sport nell’economia. L’economia, infatti, il mercato, non è il luogo
dove si vince o si perde, ma un luogo di mutuo vantaggio; dall'altra parte, l’economia
invade lo sport con le sue categorie. Si fa, quindi, ciò che rende. Il mero bilancio
e la massificazione del profitto domina tutto. Se oggi, quindi, spezziamo questo abbraccio
mortale tra lo sport professionistico ed economia e business ne uscirebbero migliori
sia lo sport che l’economia.