Sud Sudan: suor Balatti, dopo le violenze il senso di fraternità prevarrà
La diocesi di Malakal, capoluogo dell’Alto Nilo, in Sud Sudan, è stata completamente
distrutta dai combattimenti tra le truppe governative del presidente Salva Kiir e
i ribelli dell’ex vice presidente Riek Machar. A denunciarlo, all’agenzia Fides, l’amministratore
apostolico della diocesi, mons. Roko Taban Musa, che si trova in questi giorni nella
capitale sud sudanese Juba per partecipare alla riunione plenaria della locale Conferenza
episcopale. Nei giorni scorsi, le due fazioni hanno siglato ad Addis Abeba, in Etiopia,
un cessate il fuoco, con la mediazione dell’Igad, che raggruppa i Paesi dell’Africa
orientale: dal 15 dicembre, quando sono scoppiate le violenze, si contano 700mila
sfollati interni e 112mila rifugiati negli Stati limitrofi; secondo osservatori internazionali,
i morti potrebbero essere anche 10mila. Sulla situazione nel Paese africano, ascoltiamo
suor Elena Balatti, missionaria comboniana da quasi vent’anni in Nord e Sud
Sudan, raggiunta telefonicamente a Malakal da Giada Aquilino:
R. – Posso dire
che nella città di Malakal la tregua regge. E’ una zona che è stata riconquistata
dall’esercito governativo il 20 gennaio, tre giorni prima della firma di questo cessate
il fuoco. I combattimenti purtroppo continuano in varie zone, perché nelle aree dove
i due gruppi armati - l’esercito governativo e l’esercito che ha disertato (non dobbiamo
dimenticare che le parti che si fronteggiano appartenevano allo stesso esercito del
Sud Sudan fino al 15 dicembre del 2013) - vengono a trovarsi a contatto la situazione
rimane molto tesa. Questo avviene sui confini tra lo Stato dell’Alto Nilo e lo Stato
del Jonglei ed anche nello Stato dell’Unity, dove ci sono i pozzi di petrolio.
D.
– La popolazione è fortemente provata dai combattimenti. In questo momento chi è più
a rischio?
R. – La popolazione di Malakal è stata provata durissimamente. Non
hanno memoria, neppure gli anziani, di un disastro simile. Purtroppo anche se, come
Chiesa, cerchiamo di non accentuare la componente etnica di questo conflitto, perché
non giova a nessuno, comunque questa componente c’è stata. Nelle aree in cui i ribelli
hanno il controllo, le popolazioni Dinka - che sono di un gruppo etnico diverso dal
loro - sono a maggiore rischio, mentre nelle aree governative avviene il contrario:
al momento la popolazione più a rischio a Malakal è la popolazione Nuer. Non si tratta,
però, assolutamente di prendere di mira il gruppo in generale. L’esercito, infatti,
cerca chi è stato coinvolto come combattente nella ribellione, per arrestarlo.
D.
– L’arcivescovo di Juba, mons. Lukudu Loro, ha convocato in questi giorni tutti i
vescovi locali per confrontarsi sulla situazione. Qual è il ruolo della Chiesa oggi?
R.
– Il ruolo della Chiesa cattolica in particolare a Malakal, che è stata una delle
più martoriate dagli scontri, è stato veramente essenziale. Nel cortile della cattedrale
locale abbiamo avuto, ad un certo punto, 7 mila persone rifugiate. Ogni gruppo etnico
è potuto entrare. La Chiesa è stata rispettata da tutte le parti e ha potuto parlare
a favore di queste migliaia di persone, tanto che i ribelli stessi hanno deciso di
dare un aiuto umanitario sotto forma di cibo, durante il periodo in cui hanno avuto
il controllo della città, per sopperire ai bisogni essenziali della popolazione. La
Chiesa cattolica, quindi, è stata vista dai cittadini come un rifugio, dove la presenza
di Dio garantiva loro di potere continuare a vivere, a sperare e ad avere fede.
D.
– In questo momento di dolore, di violenza, di sofferenza, per dove passa la speranza
in Sud Sudan?
R. – Dopo vari anni in Sud Sudan, ho visto molte crisi - anche
nel Nord - e questa definitivamente è stata la peggiore. Passato un po’ di tempo,
però, le popolazioni sud sudanesi, che appartengono a vari gruppi, anche quelli che
si sono combattuti, riescono a trovare il modo di vivere nuovamente insieme. Penso,
quindi, che la speranza in questo momento sia il senso di fraternità che prevarrà
ancora.
D. – Voi a Malakal avete anche una radio, una radio cattolica. Qual
è il messaggio che diffondete?
R. – Dopo un periodo in cui le comunicazioni
sono saltate, abbiamo cercato di riattivare la radio, a seguito del cessate il fuoco:
perché la radio, per il fatto stesso di riuscire a trasmettere anche poche ore al
giorno, dà alla gente l’idea che la normalità stia tornando. Fra i programmi che trasmettiamo
in questi giorni uno è di particolare importanza ed è quello di dare la possibilità
alla gente di cercarsi. Infatti, la maggior parte della popolazione di Malakal è fuggita
dalla città e parecchie famiglie non sanno dove i rispettivi membri si trovino al
momento. Abbiamo poi intenzione di continuare a trasmettere programmi che parlano
della necessità di pace, di riconciliazione e di moderazione rispetto a quello che
può essere un desiderio di vendetta, che non porta a nulla.