2014-01-28 14:10:08

Allarme Fmi: un quarto dei giovani europei senza lavoro


Ancora allarme disoccupazione per l'Europa. A lanciarlo è il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale che ricorda che sono quasi 20 milioni i disoccupati nel Vecchio Continente. Christine Lagarde sottolinea che “fino a che gli effetti sul lavoro non saranno invertiti, non si può dire che la crisi è finita”. Quasi un quarto dei giovani europei under-25 non riesce a trovare un lavoro. Ma guardando, in particolare, ai vari Paesi si scopre che in Italia e Portogallo i giovani disoccupati sono più di un terzo e che in Spagna e Grecia sono più della metà. Fausta Speranza ha intervistato Franco Bruni, docente di Politica monetaria all’Università Bocconi: RealAudioMP3

R. - In questo momento c’è una crescita che riprende lievemente - in alcuni Paesi un po’ meno lievemente - ma l’occupazione non riprende. Bisogna quindi capire il legame che c’è tra la crescita dell’economia e l’occupazione, altrimenti si rischia di avere una crescita senza però un aumento dell’occupazione. Una crescita del genere potrebbe essere fragile, perché se l’occupazione non cresce non viene distribuito abbastanza reddito ai lavoratori che poi non comprano i prodotti. Crescere semplicemente per un’accelerazione della spesa senza però un aumento dell’occupazione è molto fragile. Il problema è che, con le tecnologie moderne, si può immaginare che si possa crescere risparmiando continuamente lavoro e questo richiede un’attenzione molto particolare. C’è infatti qualche grande economista internazionale che ha lanciato lo spettro della “stagnazione permanente”: in un mondo che cresce con tecnologie sempre più tali da risparmiare lavoro, con sempre più automazione nell’elettronica e nell’informatica, il rischio è che la ripresa non si possa più sostenere e si finisca in un mondo in cui i salari sono bassi, i redditi della gente - soprattutto la grande massa delle persone che hanno un lavoro dipendente non di alta qualificazione - sono bassi, non si spende più e alla fine la ripresa muore. Questo è un discorso molto complicato che c’è dappertutto; anche negli Stati Uniti c’è una ripresa in cui i riflessi occupazionali sembrano insufficienti, così come in Europa.

D. - Cosa fare per preoccuparsi innanzitutto della disoccupazione?

R. - Innanzitutto, bisogna collocare la gente nel posto giusto: c’è molta disoccupazione anche perché in molti Paesi c’è rigidità nel mercato del lavoro; quindi, bisogna fare in modo che la gente abbandoni i lavori non produttivi e sia assorbita in settori più produttivi. Questo vuol dire spendere molti soldi per mantenere i disoccupati in modo utile, indirizzandoli e formandoli. Ciò richiede una grandissima quantità di risorse che devono essere tolte da altre parti. Dobbiamo rinunciare ad altre cose per poter ricollocare molta della mano d’opera - sia a livello nazionale, che internazionale - in occupazioni che abbiano un futuro migliore. In secondo luogo, bisogna puntare sui settori in cui il lavoro è più prezioso, più utile, ad alta intensità di lavoro - come i servizi - evitando di concentrare tutto lo sviluppo in quei settori - come certi comparti dell’industria più avanzata - dove ormai con la robotica, con l’elettronica e le tecnologie moderne l’assorbimento di lavoro è molto basso.

D. - Vede questi governi europei preparati a politiche economiche incisive sulla disoccupazione? E’ dalla politica che devono venire politiche economiche concrete, o no?

R. - Sì, credo che ci sia una consapevolezza del problema che sta crescendo e che emerge in molti studi. L’Europa in particolare ha lanciato programmi per la disoccupazione giovanile che sono sulla carta e sono discussi concretamente con i singoli Paesi; sono disponibili anche fondi europei per mettere in azione politiche che aiutino a combattere la disoccupazione giovanile. Quindi, la consapevolezza c’è, le idee anche; si tratta di avere la forza politica per realizzarle e questo spesso è più difficile perché, purtroppo, all’interno dei nostri Paesi siamo divisi e non abbiamo la forza di fare grossi passi, politicamente difficili, che servano a fare riforme incisive.







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