Shoah, Vera Vigevani Jarach: conservare la memoria, impegno della mia vita
Celebrata ieri la Giornata in memoria delle vittime dell’Olocausto. Una giornata per
ricordare che, durante la Seconda guerra mondiale, milioni di uomini, donne e bambini
hanno subito i drammi della discriminazione, della persecuzione e dello sterminio.
Una storia agghiacciante - ricorda Vera Vigevani Jarach, ebrea nata a Milano nel 1928
- che non deve cadere nel vuoto dell’oblio. Il servizio di Amedeo Lomonaco:
E’ il 27 gennaio
del 1945. Le truppe sovietiche entrano, per la prima volta, ad Auschwitz. A partire
da quella data, la tragedia dei campi di sterminio e l’olocausto pianificato dal regime
nazista non possono più essere nascosti o negati. Sono indelebili pagine di storia
precedute da eventi – come la notte dei cristalli in Germania e le leggi razziali
in Italia - che hanno segnato, in modo irreversibile, la vita di milioni di persone.
Chi ha vissuto quegli anni chiede che la luce della memoria non si spenga mai. E’
quanto sottolinea Vera Vigevani Jarach, ebrea nata a Milano nel 1928, costretta
con la famiglia a lasciare l’Italia dopo le leggi razziali promulgate dal governo
Mussolini. Emigra in Argentina ma negli anni della dittatura militare la sua vita
è segnata, per sempre, da un’altra tragedia. Si definisce una “militante della memoria”.
Questa la sua testimonianza:
R. – Sono stata fortunata ad avere genitori previdenti;
soprattutto, la mia mamma è riuscita a convincere prestissimo il mio papà, che non
aveva assolutamente voglia di lasciare l’Italia perché diceva che non sarebbe accaduto
niente, in Italia. Ma mia madre l’ha convinto. Siamo arrivati in Argentina nel marzo
del 1939 e ci siamo salvati. L’Argentina ci ha aperto le braccia. Da allora in poi,
io ho abitato in Argentina.
D. – La sua famiglia decide di lasciare l’Italia,
ad eccezione di suo nonno convinto che agli ebrei non sarebbe successo nulla di irreparabile
…
R. – Mio nonno restò in Italia ed ebbe questo tragico destino di essere deportato
ad Auschwitz. Mentre noi in Argentina temevamo – ovviamente – per tutti gli amici
e parenti che erano rimasti, loro pensavano, speravano, di farcela. La maggioranza
di coloro che erano rimasti e che non riuscirono a nascondersi o a passare in Svizzera
o altrove, ebbe questo terribile destino che era un destino prevedibile, perché prima
era successo in altre parti. Il nazismo e il fascismo italiano sono stati i responsabili
di questa tragedia, la massima tragedia del Novecento.
D. – Suo nonno, rimasto
in Italia, cercò di fuggire in Svizzera ma fu arrestato e consegnato ai nazisti. Il
30 gennaio 1944 cominciò il suo viaggio verso Auschwitz …
R. – Cercò di passare
la frontiera a Ponte Tresa: erano quattro persone, di cui uno era uno studente di
Milano. Mio nonno e lo studente finirono ad Auschwitz. Prima ebbero qualche giorno
di prigionia a Varese, poi passarono a San Vittore per dei mesi e poi, purtroppo,
partirono per Auschwitz.
D. – Dopo le profonde ferite di quella tragedia, la
sua vita continua a Buenos Aires dove però non riesce a sfuggire ad un’altra persecuzione:
quella dei militari argentini. Sua figlia viene rapita e gettata ancora viva in mare
da un aereo …
R. – Mia figlia era diciottenne ed apparteneva a quella gioventù
che sognava e lottava per un mondo migliore, con giustizia sociale per tutti, uguali
opportunità per tutti … C’era questa speranza, c’era questo ideale che poi si ricongiunge
con ideali e aspirazioni di tante altre generazioni di tanti secoli: è la speranza
di un mondo più ragionevole, dove regni la fraternità e si possa convivere bene tra
tutti. Apparteneva a quella gioventù e fu toccata, appunto, per questo da un regime
civico-militare. Non furono infatti soltanto i militari, i responsabili di quest’altra
tragedia che toccò tantissima gente. Furono circa 30 mila i desaparecidos in Argentina!
E mia figlia, 18enne, finì alla Esma, la scuola di meccanica della Marina militare
argentina … Il suo destino come quello di mio nonno si rassomigliano, in quando mio
nonno non ha tomba e mia figlia neanche, perché fu uccisa con i “voli della morte”.
D.
– Oggi, dunque, come ha detto, non ha tombe su cui piangere: suo nonno è morto gassato
ad Auschwitz, sua figlia è stata gettata in mare. Ma rimane la testimonianza: la memoria
di queste atroci sofferenze non si può spegnere… R. – Ovviamente, no. L’impegno
della mia vita, dal momento in cui scomparve mia figlia, è stato dedicato a mantenere
la memoria di ciò che non deve cadere nell’oblio; con la speranza – questa sì è una
speranza fortissima! – che riconoscere certi sintomi a tempo, faccia sì che le società,
le istituzioni e i governi del mondo intero non guardino dall’altra parte e si impegnino
ad evitare che queste tragedie si ripetano.