2014-01-27 13:32:57

Shoah, Vera Vigevani Jarach: conservare la memoria, impegno della mia vita


Celebrata ieri la Giornata in memoria delle vittime dell’Olocausto. Una giornata per ricordare che, durante la Seconda guerra mondiale, milioni di uomini, donne e bambini hanno subito i drammi della discriminazione, della persecuzione e dello sterminio. Una storia agghiacciante - ricorda Vera Vigevani Jarach, ebrea nata a Milano nel 1928 - che non deve cadere nel vuoto dell’oblio. Il servizio di Amedeo Lomonaco:RealAudioMP3

E’ il 27 gennaio del 1945. Le truppe sovietiche entrano, per la prima volta, ad Auschwitz. A partire da quella data, la tragedia dei campi di sterminio e l’olocausto pianificato dal regime nazista non possono più essere nascosti o negati. Sono indelebili pagine di storia precedute da eventi – come la notte dei cristalli in Germania e le leggi razziali in Italia - che hanno segnato, in modo irreversibile, la vita di milioni di persone. Chi ha vissuto quegli anni chiede che la luce della memoria non si spenga mai. E’ quanto sottolinea Vera Vigevani Jarach, ebrea nata a Milano nel 1928, costretta con la famiglia a lasciare l’Italia dopo le leggi razziali promulgate dal governo Mussolini. Emigra in Argentina ma negli anni della dittatura militare la sua vita è segnata, per sempre, da un’altra tragedia. Si definisce una “militante della memoria”. Questa la sua testimonianza:

R. – Sono stata fortunata ad avere genitori previdenti; soprattutto, la mia mamma è riuscita a convincere prestissimo il mio papà, che non aveva assolutamente voglia di lasciare l’Italia perché diceva che non sarebbe accaduto niente, in Italia. Ma mia madre l’ha convinto. Siamo arrivati in Argentina nel marzo del 1939 e ci siamo salvati. L’Argentina ci ha aperto le braccia. Da allora in poi, io ho abitato in Argentina.

D. – La sua famiglia decide di lasciare l’Italia, ad eccezione di suo nonno convinto che agli ebrei non sarebbe successo nulla di irreparabile …

R. – Mio nonno restò in Italia ed ebbe questo tragico destino di essere deportato ad Auschwitz. Mentre noi in Argentina temevamo – ovviamente – per tutti gli amici e parenti che erano rimasti, loro pensavano, speravano, di farcela. La maggioranza di coloro che erano rimasti e che non riuscirono a nascondersi o a passare in Svizzera o altrove, ebbe questo terribile destino che era un destino prevedibile, perché prima era successo in altre parti. Il nazismo e il fascismo italiano sono stati i responsabili di questa tragedia, la massima tragedia del Novecento.

D. – Suo nonno, rimasto in Italia, cercò di fuggire in Svizzera ma fu arrestato e consegnato ai nazisti. Il 30 gennaio 1944 cominciò il suo viaggio verso Auschwitz …

R. – Cercò di passare la frontiera a Ponte Tresa: erano quattro persone, di cui uno era uno studente di Milano. Mio nonno e lo studente finirono ad Auschwitz. Prima ebbero qualche giorno di prigionia a Varese, poi passarono a San Vittore per dei mesi e poi, purtroppo, partirono per Auschwitz.

D. – Dopo le profonde ferite di quella tragedia, la sua vita continua a Buenos Aires dove però non riesce a sfuggire ad un’altra persecuzione: quella dei militari argentini. Sua figlia viene rapita e gettata ancora viva in mare da un aereo …

R. – Mia figlia era diciottenne ed apparteneva a quella gioventù che sognava e lottava per un mondo migliore, con giustizia sociale per tutti, uguali opportunità per tutti … C’era questa speranza, c’era questo ideale che poi si ricongiunge con ideali e aspirazioni di tante altre generazioni di tanti secoli: è la speranza di un mondo più ragionevole, dove regni la fraternità e si possa convivere bene tra tutti. Apparteneva a quella gioventù e fu toccata, appunto, per questo da un regime civico-militare. Non furono infatti soltanto i militari, i responsabili di quest’altra tragedia che toccò tantissima gente. Furono circa 30 mila i desaparecidos in Argentina! E mia figlia, 18enne, finì alla Esma, la scuola di meccanica della Marina militare argentina … Il suo destino come quello di mio nonno si rassomigliano, in quando mio nonno non ha tomba e mia figlia neanche, perché fu uccisa con i “voli della morte”.

D. – Oggi, dunque, come ha detto, non ha tombe su cui piangere: suo nonno è morto gassato ad Auschwitz, sua figlia è stata gettata in mare. Ma rimane la testimonianza: la memoria di queste atroci sofferenze non si può spegnere…
R. – Ovviamente, no. L’impegno della mia vita, dal momento in cui scomparve mia figlia, è stato dedicato a mantenere la memoria di ciò che non deve cadere nell’oblio; con la speranza – questa sì è una speranza fortissima! – che riconoscere certi sintomi a tempo, faccia sì che le società, le istituzioni e i governi del mondo intero non guardino dall’altra parte e si impegnino ad evitare che queste tragedie si ripetano.







All the contents on this site are copyrighted ©.