La storia di Rocco Chinnici, ucciso dalla mafia nel 1983, raccontata in un libro dalla
figlia Caterina
Presentato martedì sera a Roma il libro di Caterina Chinnici intitolato “E’ così lieve
il tuo bacio sulla fronte”. Il volume, edito da Mondadori, racconta la storia di suo
padre, il giudice Rocco, ucciso dalla Mafia nel 1983. Il servizio di Davide Dionisi:
Quel tragico
29 luglio 1983, la mafia mutò direzione. Scelse la via eclatante, quella che avrebbe
dimostrato che nel braccio di ferro con lo Stato, comunque l’avrebbe spuntata. Così
fece esplodere in Via Federico Pipitone, a Palermo, l’autobomba che uccise il giudice
Rocco Chinnici, gli uomini della sua scorta e il portiere dello stabile dove il magistrato
viveva insieme alla moglie e i figli. Oggi Caterina Chinnici, la più grande
e anche lei magistrato, ha voluto raccontare quei momenti di ansia, di angoscia e
di disperazione che hanno segnato una delle pagine più buie della storia italiana.
E soprattutto ha voluto raccontare la storia di un servitore delle istituzioni e di
come cambia una famiglia che ha vissuto il dolore della sua scomparsa:
D.
– Quanto ha contato nel suo lavoro, l’esempio di suo padre?
R. – Mi sento di
dire che è stato davvero determinante. Intanto, perché se io sono diventata magistrato
è merito di mio padre. Lui mi ha trasmesso, fin da quando ero piccolissima, un grande
amore, una grande passione per la magistratura e ho appreso, senza rendermene conto,
senza che lui mi facesse delle lezioni, come si fa il magistrato: coniugando il rigore
professionale con una grande umanità, che non deve mai essere dimenticata, nemmeno
di fronte a chi ha commesso i più gravi reati. E quindi, io ho imparato crescendo
a fare il magistrato, sono diventata magistrato con grande gioia di mio padre, e lui
è diventato il mio modello e il mio riferimento e continua ad esserlo ancora oggi.
D.
– Perché un giovane che vuole diventare magistrato dovrebbe leggere la biografia di
suo padre?
R. – Bè, proprio per quello che ho detto: perché credo che potrà
trovare un modello e penso anche uno stimolo. Papà era sempre vicino ai giovani magistrati:
incoraggiava quelli che ancora stavano studiando ad impegnarsi, a intraprendere il
concorso con impegno, con determinazione e con fiducia. E quindi io credo che possa
essere un modello di magistrato, però al tempo stesso possa offrire ai ragazzi quello
stimolo per decidere di intraprendere una carriera così impegnativa.
D. – Se
dovesse definire la mafia del 1983 e quella di oggi, come lo farebbe?
R. –
La mafia del 1983, con una parola, si potrebbe dire una mafia militarizzata, estremamente
crudele, che non teneva in alcuna considerazione la vita degli altri e che per cancellare
quelli che si ponevano come ostacoli al raggiungimento del potere e degli interessi
economici non esitavano un attimo ad ucciderli e ad ucciderli con le modalità più
brutali. Oggi la mafia è qualcosa di diverso: si è forse infiltrata nella nostra società,
si confonde più facilmente e quindi è più difficile da perseguire per le istituzioni
dello Stato, ma è certamente altrettanto pericolosa. Quindi, siamo passati ad una
mafia più sofisticata che non usa più la violenza in quanto tale, ma comunque usa
sempre lo stesso metodo: l’intimidazione, la prepotenza. E’ una violenza che non è
più, però, quella militare.
D. – Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino
… quante persone ha incontrato lungo il suo cammino con i volti e con quella volontà
di sconfiggere il male?
R. – Ma, guardi, tanti, tanti … Nella mia vita io ho
avuto il privilegio di conoscere tante di quelle persone, e poi il dolore di perderle.
Io ricordo perfettamente Cesare Terranova, Gaetano Costa, il presidente Mattarella,
che allora era presidente della Regione e venne ucciso; ho ricordo di Pio La Torre,
il generale Dalla Chiesa … tutte queste persone io le ho conosciute! Poi, Falcone
e Paolo Borsellino in particolare che io dico che fanno parte del mio patrimonio affettivo.
Paolo Borsellino, che aveva questa coincidenza del giorno di nascita con mio padre,
era una persona assolutamente simile a lui: aveva lo stesso tratto umano, aveva la
stessa profonda generosità, lo stesso tipo di impegno nel lavoro. E infatti, io dico
sempre che non è un caso se, quando io sono arrivata all’Ufficio istruzione, mio padre
scelse per me, come magistrato affidatario – oggi diremmo tutor – proprio Paolo Borsellino:
lui si riconosceva in quel giudice ed evidentemente mi ha affidata a lui con la sensazione
di essere quasi lui ad introdurmi nel lavoro.
D. – Come cambia una famiglia
che ha vissuto un dolore così forte?
R. – Bè, guardi, cambia tutto. Cambia
tutto perché si ha un impatto con il dolore … io dico che alla morte non si è mai
preparati, nemmeno quando è una morte purtroppo annunciata da una lunga malattia.
Una morte improvvisa, ancora meno. Ma una morte improvvisa, con quelle modalità, così
eclatanti e feroci, e con quella motivazione – Rocco Chinnici è stato ucciso solo
perché faceva il suo lavoro e lo faceva per il bene comune nell’interesse dei cittadini
– è un impatto violentissimo con il dolore. E il dolore richiede tanto tempo perché
possa essere, mai dimenticato, ovviamente, mai colmato, ma metabolizzato e nel tempo
accettato come compagno di vita, tanto da diventare una grande forza. L’impatto immediato,
io dico, è di grande stordimento; poi c’è la rabbia: una rabbia fortissima perché
non si può accettare una cosa del genere. Poco a poco da quella rabbia, forti dei
valori che si hanno, forti della fede che mia madre – ma anche mio padre – aveva profondamente
radicato e che ci hanno trasmesso e che ci ha sostenuto; forti di quello che era stato
l’esempio di coraggio e di determinazione di mio padre che aveva comunque voluto vivere
una vita quanto più possibile serena sotto il profilo familiare, abbiamo incominciato
a ricostruire la nostra vita, partendo proprio dall’accettazione, dall’accettare –
comprendendone le motivazioni più profonde, cioè l’impegno di mio padre – il fatto
che lui stesso per primo avesse accettato il rischio, accettare quella morte e a poco
a poco andare verso un cammino che ci ha portati a interiorizzare sempre di più quel
dolore però, ripeto, a trasformarlo in un compagno di vita e in una grande forza.
Però, non c’è dubbio che ancora oggi, a 30 anni di distanza dalla sua morte, i miei
fratelli ed io, ormai adulti, ormai genitori a nostra volta, quel vuoto lo avvertiamo.
D.
– Cosa vuol dire avere un cognome come il suo?
R. – Avere una grande responsabilità.
Un’eredità decisamente impegnativa, tra l’altro poi per me che ho fatto lo stesso
lavoro. Vuol dire, pur senza farsene condizionare, senza rimanerne schiacciati, ricordare
sempre di dover essere all’altezza del nome che si porta, dei valori che quel nome
tuttora testimonia. Però, devo dire che è un’eredità bellissima perché è un’eredità
di valori, e credo che sia la più bella eredità che un padre possa lasciare ai suoi
figli.