Si sono tenute giovedì notte nella Basilica di Santo Stefano a Bologna le esequie
in forma strettamente privata del maestro Claudio Abbado, scomparso il 20 gennaio
a 80 anni nella sua casa bolognese, dopo una lunga malattia. Attorno al feretro, alla
chiusura della camera ardente rimasta aperta per due giorni, solo la famiglia del
maestro e l'amico don Giovanni Nicolini che ha guidato la cerimonia. Ad accompagnare
l'estremo saluto anche alcuni musicisti che intorno all'una hanno suonato un breve
brano caro al direttore d'orchestra. Il feretro è stato quindi portato al cimitero
di Borgo Panigale per la cremazione, come disposto dallo stesso Abbado. Si è chiusa
così una lunga vita interamente dedicata alla musica sin dall’età di sette anni. Lo
ricorda al microfono di Gabriella Ceraso il suo amico e direttore della Filarmonica
della Scala, Ernesto Schiavi:
R. – Abbado
si può definire proprio un amico della musica: un amico intelligente, colto e sensibile.
Ha restituito alla Scala di Milano, all’Italia, a tutto il mondo, tantissimo.
D.
– Un uomo rigoroso, un artista serio, molto sensibile. Penso che nella fondazione
della Filarmonica a cui il maestro ha contribuito abbia portato anche una sua idea
di fare musica…
R. – Lui definiva sempre suonare, eseguire un concerto, come
fare musica insieme e questo viene da una cultura che nasce dalla sua formazione anche
viennese, che nasce dalla musica da camera, dal suonare in pochi e poi in tanti, che
non è altro che un numero aggiuntivo. Ma il valore filosofico ed anche sociale è quello
di lavorare per fare le cose insieme.
D. – Io le giro una frase, me la commenti:
“La musica è necessaria alla vita, può cambiarla, può migliorarla e addirittura in
alcuni casi può salvarla”. Lo diceva il maestro…
R. – Questo viene anche dalle
sue esperienze, ad esempio con il sistema "Abreu" in Venezuela. Tornò folgorato da
come la musica potesse diventare una forma di socialità organizzata: salvare anche
gli emarginati, dando loro un interesse e creando una struttura. Per cui, la funzione
della musica è esattamente anche questa.
D. – Il presidente Napolitano ma non
solo, ricordando l’amico Abbado, ha citato anche i tanti giovani che il maestro ha
formato e seguito nel tempo come studenti, e che ora sono grandi professionisti. Perché
questa passione per i ragazzi?
R. – Perché lui è un ragazzo, è rimasto un
ragazzo. Poi, è chiaro, che la grande professionalità, la sua internazionalità creava
in questi giovani giustamente una forma di emulazione e di interesse. Credo fosse
proprio il piacere di stare con i giovani bravi, che sapessero lavorare bene ma che
dessero anche a lui entusiasmo continuo - la Mahler, l'ECO (European Contemporary
Orchestra - ndr) -sono orchestre formate da giovani di tutta Europa - ma è
soprattutto il mettere insieme tutte queste culture, in cui lui ha sempre trasmesso
il suo entusiasmo ed ha anche ricevuto entusiasmo, come linfa anche per se stesso.
D.
– Di solito, di un direttore di orchestra quando sale sul podio si guarda il gesto
e dal gesto si risale a una concezione, a un’idea della musica, ma anche all’essere
umano. Dal gesto del maestro cosa si deduce?
R. – Il gesto è fatto di due parti.
Una parte è il linguaggio, la scuola: Abbado aveva un gesto molto bello di scuola
mitteleuropea, con una mano sinistra molto espressiva, un senso del ritmo e una coordinazione
straordinaria. Poi, dal gesto, oltre alla scuola, si può risalire al carattere: si
vede un carattere perentorio, carattere di forza ma mai forza muscolare, sempre forza
di pensiero, che si trasmette attraverso la perentorietà ma anche la rotondità. Questo
era il suo gesto.
D. – Che cos’era che veramente lo appassionava?
R.
– Era proprio il pensare un’opera o un brano musicale nella sua interezza, da cima
a fondo. Quello che credo lo appassionasse era proprio l’idea globale del pezzo. Infatti,
era un direttore in cui, non conoscendolo nella concertazione, si poteva pensare che
fosse noioso, perché ripeteva sempre, lavorava e ripeteva. Non ci si accorgeva però
che in questa noiosità delle ripetizioni lui arrivava poi a un’idea finale che era
la sua e di cui tu, musicista, ti accorgevi poco durante il lavoro,te ne accorgevi
poi al momento dell’esecuzione.
D. – Quindi, più che una nota - come diceva
lei - è la magia della musica che lui voleva ricreare…
R. – Lui voleva creare
quello che era stato scritto dal compositore dalla A alla Z, nella sua interezza,
dandolo fedelmente. Questo era quello che lui voleva sempre, al di là dei particolari.
D.
– In queste ore, non solo Milano, non solo Bologna, non solo l’Italia, ma anche Berlino,
Vienna, Salisburgo lo ricordano. Molti teatri gli stanno dedicando le prime di alcuni
spettacoli, o comunque un pensiero. Cos’è che rende un maestro tanto amato a livello
mondiale?
R. – Credo che a livello mondiale passino alcune cose. Una è la preparazione,
la capacità, la tecnica, la visione musicale. Un’altra cosa è il carisma, il personaggio,
la statura del personaggio, quindi la profondità e la capacità di comunicare. Evidentemente
se il mondo – non solo Milano – risponde così, vuol dire che Claudio queste cose le
aveva tutte.