Discorso al Corpo Diplomatico. Il teologo Coda: il Papa esorta a superare logiche
individualistiche
"Serve un impegno comune per favorire una cultura dell’incontro, perché solo chi è
in grado di andare verso gli altri è capace di edificare la pace. Quanto dolore, quanta
disperazione causa la chiusura in sé stessi". E' questo uno dei passaggi centrali
del discorso che Papa Francesco ha rivolto lunedì al Corpo diplomatico accreditato
presso la Santa Sede. Per un commento, ascoltiamo don Piero Coda, teologo,
preside dell’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, al microfono di Fabio
Colagrande:
R. - Nel Papa
si sente vibrare la compassione, che diventa indignazione, per le ferite che vengono
inferte a tanti fratelli e a tante sorelle, a partire dai più deboli, dai più emarginati.
Ma questo sentimento profondo di compassione con chi è vittima della violenza, dell’odio,
dell’emarginazione e di indignazione contro quei meccanismi sociali e quelle perversioni
di sentimenti che escludono qualcuno, diventano in lui proposta concreta di un atteggiamento
spiritualmente rinnovato, convertito all’azione di Dio nella storia e proprio per
questo un atteggiamento che si modula su una relazione di apertura, di prossimità.
Il Papa parla - è una bellissima espressione, che riprende dal suo discorso a Lampedusa
- di "responsabilità fraterna". Responsabilità fraterna vuol dire che l’altro non
è indifferente, non è escluso dal cerchio della mia vita, ma l’altro vi fa parte:
io sono responsabile dell’altro. Questo è il sentimento di una cultura dell’apertura,
della prossimità, dell’incontro di cui - in modo molto forte, in modo molto concreto
- il Papa parla.
D. - Papa Francesco ancora una volta - lo ha fatto spessissimo
- è tornato sull’importanza che la società deve dare agli anziani e ai giovani. E
poi quell’accenno fortissimo ai bambini, che non potranno mai vedere la luce, vittime
dell’aborto; o ai bambini soldato, ai bambini violentati e uccisi nei conflitti armati…
R.
- Questo significa una cosa molto profonda: non possiamo tirarci indietro rispetto
alla responsabilità che ci investe di fronte a tutti i casi in cui qualunque persona
umana - dal concepimento fino all’espletamento della sua vita terrena - sia in qualche
modo sfruttato. Mi sembra quasi di vedere una attuazione di quello che dice il Concilio
Vaticano II nella Gaudium et Spes: occorre superare un’etica puramente individualistica;
occorre prendersi carico, nella propria responsabilità, dell’altro, a partire dal
più povero e a partire da quelle due dimensioni dell’esistenza, che sono rappresentati
dai giovani e dagli anziani: chi entra in pieno nel gioco dell’esistenza della società
e chi apporta alla società tutta la ricchezza della sua memoria, come lui dice, e
della sua esperienza. Quindi è una sorta di rivoluzione copernicana nel modo di concepire
il rapporto tra le generazioni nel forgiare una società in cui veramente la dignità
della persona umana sia al centro.
D. - Ha colpito, infine, il nuovo riferimento
di Papa Francesco a Paolo VI: in questo caso lo ha citato nella frase “la pace non
si riduce ad un’assenza di guerra”…
R. - Certamente questo riferimento che
viene dalla Populorum Progressio, che in qualche modo è stato un documento
assolutamente profetico, di traduzione della spinta conciliare a far diventare l’etica
evangelica un’etica di trasformazione del mondo nel segno della giustizia. E’ solo
dalla costruzione di un ordine della giustizia e dell’amore che si costruisce una
pace efficace e duratura. Questo implica la visione del Vangelo e dell’azione dei
cristiani come lievito e fermento di trasformazione della vita sociale secondo la
logica del Vangelo.