Barcone carico di sud sudanesi, in fuga dalle violenze, affonda nel Nilo Bianco: oltre
200 morti
La guerra che da metà dicembre dilania il Sud Sudan ha provocato nuove vittime. Oltre
200 persone, in fuga dai combattimenti tra ribelli dell'ex vice presidente Riek Machar
e truppe governative fedeli al presidente Salva Kiir, sono morte annegate: il barcone
che le trasportava è infatti colato a picco domenica scorsa nelle acque del Nilo Bianco,
per il carico troppo pesante. La notizia si è appresa ieri. Tra le vittime, molte
donne e bambini che cercavano una via di salvezza dopo che nella loro città, Malakal,
nella parte nord-orientale del Paese, gli scontri si erano fatti sempre più violenti.
Dei motivi che spingono tanti sud sudanesi a lasciare le loro case, Giada Aquilino
ha parlato con suor Paola Moggi, missionaria comboniana appena rientrata da
Juba, dov’era direttrice della Rete delle Radio Cattoliche del Sud Sudan e dei Monti
Nuba:
R. – A spingerli
è la paura. Siamo testimoni di atrocità che, in effetti, sono sempre state commesse
in Sud Sudan. Il problema del Sud Sudan è che ci sono state tante milizie. L’esercito
sud-sudanese non esiste: esistono tante milizie che il presidente Salva Kiir ed altri
generali hanno cercato di ricucire, ma ogni milizia è fedele al proprio generale o
comandante. I sud sudanesi sanno che non sono rispettati, sono trucidati, hanno paura
e scappano: c’era l’assedio di Malakal ed aspettavano che i ribelli attaccassero;
poi ci sono stati scontri in un piccolo centro a Sud di Malakal. Tutto ciò crea, ovviamente,
grande tensione e grande paura. La gente scappa perché vuole salvarsi.
D. –
Di fatto, poi, quali sono le condizioni di vita in Sud Sudan?
R. – Si vive
alla sussistenza. Il Sud Sudan è un Paese che è stato 50 anni in guerra – che cominciò
nel ’55 – e ha avuto una tregua della cosiddetta Prima guerra di indipendenza soltanto
dal ’72 all’83. Hanno ripreso poi a combattere dall’83 al 2005. Non ci sono infrastrutture
ma solo una strada asfaltata che va da Juba al confine con l’Uganda, tutto il resto
consiste in strade di terra battuta che divengono pressoché impraticabili durante
la stagione delle piogge. È un Paese che ha appena due anni di vita – si è costituito
il 9 luglio del 2011 – con tante zone ancora minate, perché la guerra ha seminato
ordigni ovunque. Il Sud Sudan ha bisogno di anni per ricostruirsi, ha bisogno di anni
per costruirsi perché parte da rovine, intese non soltanto come rovine di edifici,
ma rovine "dentro le persone".
D. – La Fao ha lanciato un nuovo allarme perché
gli scontri minacciano di far aumentare fame e sofferenze. Cosa serve, oltre alla
pace, per il Sud Sudan?
R. – All’atto pratico, serve un’immediata cessazione
delle ostilità; è questo che deve iniziare. Per il resto, il Sud Sudan ha due raccolti
all’anno: la zona dell’Equatoria occidentale e la zona dell’Equatoria centrale sono
fertilissime. Ovviamente, c’è l’emergenza fame perché le zone fertilissime non possono
dar cibo alle zone non fertili: non ci sono strade, ma soprattutto se ci sono scontri
la gente non può nemmeno coltivare. Quindi, quello che serve – dopo la fine degli
scontri armati – è un processo di riconciliazione. Penso che questa riconciliazione
possa essere fatta soltanto dalle Chiese e dai capi religiosi, perché negli anni passati
si sono dimostrati come gli unici che hanno a cuore la popolazione: hanno rispetto,
hanno una reputazione ed hanno ricevuto una fiducia che i capi politici non hanno.
D.
– Lei è stata per anni missionaria a Juba, ma il suo lavoro di responsabile della
Rete delle Radio Cattoliche l’ha portata in tutto il Sud Sudan. C’è un ricordo particolare,
un ricordo positivo di questa esperienza?
R. – Quello che è meraviglioso è
proprio la voglia della popolazione di ricostruirsi. Io non ho mai visto bambini tanto
contenti di andare a scuola - con la seggiolina sulla testa - perché la scuola non
c’era, intendo come struttura: hanno una gran voglia di imparare. Noi abbiamo fatto
tantissima formazione dei giovani per i vari programmi; abbiamo nove stazioni radiofoniche
ed ogni stazione deve parlare nella lingua locale. La prima esperienza di formazione
l’abbiamo fatta con un corso per 16 giovani, che venivano da zone diverse del Sud
Sudan, quindi si guardavano con grande diffidenza, avevano paura l’uno dell’altro,
perché magari provenivano da zone in conflitto tra loro; ecco perché parlo del problema
di “ricostruire la fiducia”. Abbiamo fatto molto accompagnamento per questi giovani
e, alla fine dei tre mesi di corso residenziale, sono andati via che erano tutti amici
tra loro.