Myanmar: punto di svolta per cambiare la Costituzione per le elezioni 2015
Prosegue il cammino di democratizzazione in Myanmar, in vista delle elezioni generali
del 2015. E, c’è attesa per la proposta dal partito Usdp (Partito dell’Unione per
la solidarietà e lo sviluppo al governo) all'esecutivo di emendare la Costituzione
del 2008 approvata sotto il passato regime militare, che vieta la candidatura di cittadini
con coniugi o figli di altra nazionalità. Questo permetterebbe al Premio Nobel per
la Pace Aung San Suu Kyi di presentarsi al voto. Quali prospettive dunque si aprono?
Roberta Gisotti ha girato la domanda a Roberto Tofani, giornalista,
fondatore del sito “sudestasiatico.com”:
R. - Innanzitutto,
come ha detto la stessa Suu Kyi, bisognerà attendere per vedere se queste riforme
verranno fatte o meno. In questa settimana e anche per il resto del mese di gennaio
e nei primi di febbraio, Suu Kyi sarà in tour, anche nelle zone più remote del Paese,
proprio per parlare di Costituzione, di emendamenti, di possibilità future, perché
lei - come leader di Lega Nazionale per la Democrazia - naturalmente ha sottolineato
il fatto che questa Costituzione, finché non sarà cambiata, non rappresenta un Paese
democratico. Oltre al fatto che vieta a lei - come ad altri cittadini con le sue stesse
caratteristiche - di potersi candidare alla presidenza, mantiene fortemente quel 25
per cento di parlamentari riservati ai militari. Ricordiamoci che gli attuali leader
del governo e del Paese sono tutti ex-militari, quindi tutti ex appartenenti alla
Giunta militare, che ha poi portato a questa Costituzione nel 2008, votata con un
referendum che è stato denunciato da più parti come un referendum praticamente finto
e che venne anche boicottato da gran parte della popolazione birmana.
D. -
Però possiamo considerare un buon segnale l’amnistia di fine anno, che ha liberato
altri 2.000 carcerati, e la grazia per tutti i detenuti politici concessa a fine anno
proprio dal presidente Thein Sein…
R. - Diciamo che sono piccoli segnali che
il governo birmano, che l’ex Giunta militare birmana ha sempre lanciato negli anni
scorsi. Queste amnistie sembrano quasi scattare ad orologio: prima del referendum
ce ne fu una, e anche prima delle elezioni e prima della liberazione della stessa
Suu Kyi… Vengono fatte queste amnistie quasi per dire: “Stiamo comunque aderendo alle
richieste che ci spinge a fare Comunità internazionale…”. Quindi questi possono essere
visti anche come dei segnali positivi. Quello che, però, spesso non viene detto è
che poi questi prigionieri politici, una volta rilasciati, non riescono più a vivere
una vita libera: anche fuori dal carcere vengono continuamente pedinati e limitati
proprio nell’espressione della loro vita libera. Per fare un esempio: non è previsto
alcun programma di recupero per queste persone che, a volte, hanno trascorso 15-20
anni in prigione, in celle di 4-6 metri quadrati. Quindi sono persone - loro e le
loro famiglie - totalmente devastate: solo perché, in passato, hanno espresso il loro
punto di vista ed hanno pagato anche con 20 anni di prigione, come pagò lo stesso
Win Tin, che - ricordiamo - è uno dei leader di Lega Nazionale della Democrazia, forse
quello più intransigente nei confronti dell’attuale governo.
D. - Sappiamo
che la Banca Mondiale ha previsto per il Myanmar in questo anno 2014 una crescita
economica record del 6,8 per cento. Questa può essere una ‘boccata di ossigeno’ per
un Paese tra i più poveri e meno sviluppati del mondo?
R. - Sì, le previsioni
- sia quella della Banca Mondiale, sia anche altre previsioni della Banca asiatica
per lo sviluppo - non fanno altro che parlare di “nuova frontiera”, di “nuovi sviluppi”,
“nuove crescite”. Certo bisogna capire anche come si dirige questo sviluppo, perché
gli esempi il Myanmar ce li ha vicini: Vietnam, Cambogia, Laos. Ovvero se questo sviluppo
deve essere poi concentrato nelle mani di pochi ed è un’élite - che è quella di governo
- a portarla avanti, senza poi ridistribuirla, allora qui siamo in presenza della
perpetuazione di vecchi meccanismi di potere che il Paese e la popolazione birmana
già ben conoscono, purtroppo! O se invece, a fianco a questo sviluppo, c’è la volontà
da parte delle autorità, delle istituzioni di aprirsi veramente ai principi della
democrazia, quindi di sfruttare questi soldi, queste entrate per riformare tutto il
sistema, garantendo un’equa redistribuzione: cosa che non è avvenuta nei 60 anni di
dittatura.
D. - Dunque è ancora presto per rallegrarsi per il futuro di questo
Paese?