Tunisia: nuova Costituzione pari diritti alle donne. Prof. Papa: "Passo rilevante"
A tre anni dall’inizio della primavera araba, la Tunisia si sta dotando di una nuova
Costituzione che sembra allontanare i timori di una svolta islamica fondamentalista.
La Carta è all’esame dell’Assemblea costituente, che prevede di adottarla entro il
14 gennaio, terzo anniversario della rivoluzione contro il deposto presidente Ben
Ali. Nel nuovo testo è sancita la natura laica dello Stato, il divieto della tortura,
la libertà di opinione, pensiero, espressione e informazione, oltre che la parità
legale dei sessi approvata ieri. Roberta Gisotti ha intervistato il prof.Massimo Papa, ordinario di Diritto musulmano e dei Paesi islamici, all’Università
Tor Vergata di Roma:
D. – Prof. Papa,
un aspetto – questo della parità legale dei sessi – certo importante per i diritti
umani delle donne, sovente ignorati in molti Paesi arabi...
R. – A me sembra
che sia un fatto assolutamente rilevante. Innanzitutto, perché conferma – o per lo
meno consolida – una tradizione di natura laica della stessa Tunisia, già avviata
ai tempi degli anni Cinquanta, con Habib Bourguiba. Ricordiamo che la Tunisia è stata
da sempre additata come il Paese più avanzato, più moderno sotto il profilo del diritto
di famiglia, avendo già dagli anni Cinquanta abolito istituti tipici del diritto tradizionale
islamico, come il ripudio, la poligamia e concesso il divorzio a pari condizioni.
Certamente, rimaneva anche lì una rivoluzione incompiuta, se si considera – ad esempio
– che tutto il diritto successorio rimaneva ancora fortemente radicato nelle regole
sharaitiche. Fatto sta che questo articolo 20, così come approvato ieri – il fatto
che tutti i cittadini e le cittadine abbiano gli stessi diritti e gli stessi doveri
e che siano uguali innanzi alla legge, senza discriminazione alcuna – è una pietra
miliare nello sviluppo di un ordinamento sulla via della democratizzazione.
D.
– Perché, allora, ci sono state critiche da parte di organizzazioni umanitarie?
R.
– Perché si sarebbe, magari, voluta una formula più specifica con il riconoscimento
e l’attribuzione di diritti e anche divieti e discriminazioni fondati magari su motivi
di razza, religione e sesso. La verità è che si tratta di una formula un po’ di compromesso
tra le forze più moderniste, laiche e le forze legate a al-Nahda, cioè alle forze
islamiche radicali. Qualche anno fa, circolò un progetto di riforma della Carta costituzionale
tunisina che avrebbe dovuto sancire la complementarietà delle donne rispetto all’uomo:
complementarietà è un concetto proprio tipico del diritto tradizionale islamico secondo
il quale la donna non è perfettamente uguale, ma è complementare al
marito.
D. – Lei crede che questa svolta liberale sia il frutto politico di
un dibattito interno o piuttosto da collegarsi alla "lezione" egiziana?
R.
– Entrambe le cose, per la verità. Io credo che l’adozione di principi di sharia
all’interno della Costituzione abbia una valenza non soltanto giuridica, ma fortemente
politica, in considerazione dello stretto collegamento della natura tra diritto e
religione. La sharia è la legge sacra dell’islam e comporta la reintroduzione
dei valori della morale e della religione islamica all’interno dell’ordinamento. Il
fatto che non sia stata adottata la sharia tra le fonti del diritto, rappresenta
sicuramente un punto di svolta e un freno alla deriva islamica che invece ha avuto
luogo nei Paesi confinanti, a cominciare – appunto – dall’Egitto con le note vicende
che tutti conosciamo, ma anche nella stessa vicina Libia dove, invece, per la prima
volta i principi della sharia vengono introdotti nella Carta costituzionale.
Sicché, la Tunisia sembra confermare invece questa tendenza in quel solco della tradizione
moderata dell’islam, esattamente come ha fatto il Marocco con la Costituzione nel
2011: nel preambolo della Carta costituzionale, il Marocco si richiama alla tradizione
islamica moderata. Cosa debba essere, poi, di fatto e come debba essere interpretata,
questo è tutto un altro problema, appunto, di interpretazione del Supremo Consiglio
degli Ulema. In Tunisia, invece manca un organo religioso di riferimento, ma sarà
la Corte costituzionale poi, di volta in volta, a riempire di contenuto le norme costituzionali.
D.
– Quindi, un processo di democratizzazione che va anche incoraggiato, sostenuto e
vigilato dall’estero?
R. – Io in queste forme di tutorato e di tutela credo
poco. Una democrazia è saldamente radicata soltanto se nasce dall’interno e se è fortemente
condivisa. E’ chiaro che, in questo momento, in Tunisia c’è un dibattito molto articolato,
assai vivace, sulle varie posizioni di correnti islamiche radicali e correnti più
riformiste. Certamente, la crisi economica – che pure ha investito la Tunisia, evidentemente
– è uno dei fattori che il prossimo governo dovrà tenere in considerazione. L’islam
può costituire infatti una bandiera attorno alla quale stringersi nei momenti di crisi
e di sofferenza, anche economica. La religione è capace di dare dignità a un popolo
che per oltre 50 anni ha subito una forte dittatura, con la complicità anche dell’Occidente,
questo non occorre negarlo. Questi regimi sono stati tenuti in sella con la connivenza
e la complicità dei Paesi occidentali. Poi, improvvisamente si è scoperto che anche
le popolazioni arabe avevano diritto a proprie rivendicazioni democratiche… Questo
significa, però, che sarà un processo lungo.
D. – Quindi, un processo di democratizzazione
che ha e avrà i suoi tempi di maturazione…
R. – Assolutamente. Quello che mi
preme sottolineare e che spesso sfugge all’occhio occidentale, ai non addetti ai lavori:
il fatto che ci siano delle posizioni all’interno della società, soprattutto tunisina.
Penso a Yadh ben Achour o ad altri intellettuali che da sempre lottano per un’interpretazione
moderna dell’Islam e della tradizione giuridica islamica. Ci sono posizioni molto,
molto articolate, non così facilmente riconducibili ad uno schieramento islam radicale
e modernista, ma questo è frutto – appunto – di un dialogo che ha appena preso le
mosse e che richiederà i propri tempi. E forse l’Occidente dovrebbe osservare, con
il dovuto rispetto, questi tentativi che si stanno compiendo dall’interno.