Al via il trasferimento delle armi chimiche siriane. Scontri tra qaedisti e ribelli
Un primo carico di armi chimiche della Siria ha lasciato il porto di Latakia a bordo
di una nave danese. L'Italia ha messo a disposizione un porto per trasbordarle su
una nave Usa, che le distruggera' in acque internazionali. Il segretario generale
dell'Onu, Ban Ki-moon, ha accoilto con "favore i continui progressi nello sforzo internazionale
per eliminare l'arsenale chimico siriano". Intanto, Il ministro degli Esteri di Teheran,
Marzieh Afkham ha ribadito che l’Iran non accetta alcuna "condizione" per prendere
parte alla conferenza di pace ‘Ginevra 2' sulla crisi siriana, prevista il 22 gennaio.
Ed è di almeno 274 morti il bilancio degli scontri degli ultimi quattro giorni
nel nord della Siria tra i ribelli dell'Esercito siriano libero (Esl) e i jihadisti
dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isis), gruppo affiliato ad al-Qaeda.
Particolarmente critica la situazione a Idlib. Una guerra, quella siriana, che
sta lacerando il Paese mediorientale da tre anni, ma che non scoraggia chi, come padre
Ghassan Sahoui, quotidianamente opera per il dialogo e la solidarietà. A Homs,
infatti, questo giovane gesuita dirige il Centro educativo del Santo Salvatore, che
ospita oltre 700 bambini di qualsiasi religione. Salvatore Sabatino lo ha intervistato:
R. – Ad Homs,
noi viviamo in una zona calma, però ogni tanto arriva un missile o colpi di mortaio.
Quindi, non siamo sicuri al cento per cento. Aspettiamo e siamo prudenti. Quando ci
colpisce qualcosa, la gente deve essere pronta a scappare, ma la vita abitualmente
va avanti. Ci sono tante difficoltà, quelle materiali ed economiche soprattutto perché
ci sono tante persone che non lavorano più e quelle che lavorano ricevono solo qualcosa
sufficiente per arrivare a metà mese, dopodiché si devono trovare altre risorse.
D.
– Una guerra questa sicuramente atroce. C’è però, e so che lei questo lo vuole sottolineare
con forza, anche un grande senso di solidarietà tra la gente…
R. – Noi Gesuiti,
assieme alle suore della spiritualità ignaziana e con quasi 100 collaboratori, lavoriamo
in un Centro di aiuto umanitario per bambini. Abbiamo un Centro educativo di quasi
700 bambini e ragazzi dai 6 ai 14 anni e un Centro anche per disabili. Accogliamo
tutti senza far nessuna differenza tra le religione. Ci sono cristiani, musulmani,
sunniti, alawiti. Viviamo e sentiamo davvero questa solidarietà tra noi. Non vogliamo
più la guerra: tutti noi proviamo a vivere e ad aiutarci davvero a vivere anche se
c’è la guerra e la tristezza. Sentiamo però una certa gioia nel vivere insieme, nel
combattere insieme contro l’inimicizia e l’odio che purtroppo in Siria sta crescendo
sempre più tra tutti i gruppi. C’è un esempio in questo Centro, che serviamo un po’
come “ponte”: coloro che fuori combattono quando si trovano qui sono nella calma,
lavoriamo insieme per l’uomo, per i bambini e le famiglie. Si possono incontrare da
noi: questo Centro serve da vero ponte tra sunniti ed alawiti, che abitualmente sono
nemici. Non tutti, ma in generale è così.
D. – Si ha dall’esterno l’impressione
che questa sia una guerra che è molto cambiata, soprattutto nell’ultimo anno. Purtroppo,
ci sono anche presenze estere all’interno del Paese e molte testimonianze parlano
di persone che parlano altre lingue sconosciute. Si parla di ceceni, di tutto quel
radicalismo islamico che sta portando la guerra verso una direzione completamente
diversa e sicuramente più complessa. I cristiani in questa situazione che ruolo possono
svolgere, visto che hanno svolto sempre un ruolo di grande equilibrio all’interno
del Paese?
R. – I cristiani, come tutti gli altri gli uomini di buona volontà,
non vogliono altro che la pace. Anche noi siamo colpiti di come questi stranieri siano
venuti per combattere sulla terra siriana e vediamo che è vero che non si tratta di
una guerra solo tra siriani, ma è una guerra tra religioni, internazionale. Ci sono
tanti giocatori e Paesi che hanno diversi interessi. Vediamo dove si può arrivare
attraverso l’odio per l’altro: persone e combattono tra loro. Perché? Se vogliamo
davvero un esito positivo, bisogna dialogare e non combattere. Vogliamo la pace.
D.
– Questo credo sia un sentimento comune a tutta la popolazione siriana in questo momento.
Lei che è siriano, di Damasco, e che vive ad Homs, ha l’impressione che ci sia tra
la gente ancora la speranza di questa pace, che difficilmente si vede in questo momento,
o c’è più rassegnazione?
R. – Così, così. Non è facile avere speranza in questo
momento, ma ci sono tanti che sperano ancora.
D. – Lei dice che però la speranza
è lassù: la vostra preghiera è continua…
R. – Certo. Noi proviamo a metter
da parte il dialogo politico, gli argomenti politici e proviamo a vivere e aiutare
la gente sul terreno, concretamente. Basta alle armi, basta al sangue perché così
non si può vivere. Sempre tantissimi morti, sempre tantissime vittime: basta, basta!