Sud Sudan: al via i colloqui tra governo e ribelli, ma gli scontri non si arrestano
Non si fermano le ostilità in Sud Sudan: in due provincie del Paese, dove sono in
corso violenti scontri tra forze fedeli al presidente Salva Kiir e i ribelli, è stato
dichiarato lo stato di emergenza. Intanto, hanno preso il via i colloqui informali
tra le parti, mediati dall’Etiopia. Il servizio di Davide Maggiore:
Lo stato di
emergenza è in vigore negli stati di Jonglei e Unity, di cui i ribelli controllano
i capoluoghi. È la prima volta, dall’inizio dei combattimenti - a metà dicembre -
che il capo dello Stato, Salva Kiir, fa uso di questo potere. A Juba è stata costituita
anche un’unità di crisi, affidata direttamente al vicepresidente James Wani Igga,
mentre dal terreno giunge la notizia che migliaia di soldati governativi sono stati
inviati a Bor, in Jonglei, nel tentativo di riprenderla dalle mani dei ribelli: i
media locali hanno segnalato inoltre episodi di saccheggio, soprattutto ai danni di
commercianti stranieri che si trovavano ancora in città. In questo clima sono arrivati
in Etiopia, ad Addis Abeba, gli otto negoziatori governativi, che devono incontrare
quelli scelti dal leader dei ribelli, Riek Machar, per iniziare i colloqui voluti
dai Paesi della regione: la speranza dei mediatori è quella di arrivare almeno all’accordo
per un cessate-il-fuoco.
Nonostante le trattative faticosamente avviate, però,
gli scontri si stanno estendendo ad altre parti del Paese. Davide Maggiore
ha raccolto la testimonianza del dott. Paolo Setti Carraro, di Medici con l’Africa–Cuamm,
che opera nell’ospedale di Lui, città nella provincia di Western Equatoria:
R. – Nelle ultime
due settimane gli scontri hanno coinvolto principalmente cinque Stati a Nord e ad
Est del Paese. Questa mattina, purtroppo, c’è stato uno scontro: c’è stata un’imboscata,
ed è stato attaccato un accampamento di soldati, a cinque miglia circa da Mundri,
grossa città della Western Equatoria. Quindi anche in questo Stato sembra che comincino
i conflitti. Questo accampamento è stato attaccato da persone non identificate, che
hanno sparato ai soldati che stavano riposando. Al momento abbiamo due morti e dieci
feriti.
D. – In che condizioni vi trovate a operare, a dover curare i feriti?
R.
– La situazione è questa: io sono l’unico chirurgo dell’ospedale, ho due tecnici di
anestesia che mi assistono e poi c’è il personale infermieristico, sia nazionale sia
internazionale. Quindi, la situazione è quella di dover far fronte a queste emergenze
con uno staff in numero limitato.
D. – Negli scorsi giorni, l’Organizzazione
Mondiale della Sanità ha lanciato anche un allarme appunto per la carenza di personale
sanitario e il rischio che si possano diffondere epidemie, in seguito alla fuga del
personale dalle zone in conflitto. Qual è la situazione umanitaria nell’area in cui
lei si trova, nel Western Equatoria?
R. – Quest’ospedale è un ospedale che
serve tre contee, quindi circa 150 mila abitanti, ed è l’unico ospedale di queste
tre contee. Più a Nord c’è l’ospedale di Yirol, dove in questo momento ci sono due
medici italiani del Cuamm, che cominciano, anche loro, ad avere problemi, perché si
sta combattendo a circa 20 km dalla città. Ci sono scaramucce un po’ in tutto il Paese.
Il grosso problema è che la città di Bor, che era stata conquistata da Kiirtre
giorni fa, è poi ricaduta nelle mani dei ribelli a distanza di 24 ore. Quindi, quello
che ci si aspetta in questo momento è un’apertura di piccoli fronti sparsi per il
resto del Paese e, forse, prossimamente un attacco a Juba, che sarebbe veramente un
disastro umanitario. In questo momento soltanto da Bor sono fuggite, tre giorni fa,
circa 25 mila persone. Tutti i centri delle Nazioni Unite, tutti i campi dell'Onu,
accolgono sfollati e, al momento, sono circa 110 mila gli sfollati sotto la protezione
delle Nazioni Unite. Ci sono dei grossi problemi di conflittualità, all’interno dei
campi e tra l’interno e l’esterno dei campi: tentativi di vendette tribali, a cavallo
dei confini dei campi; gente che esce e viene assalita; episodi di linciaggio all’interno
dei campi tra persone di etnia diversa. E questo è un grossissimo problema per tutti
quanti.
D. - Migliaia di soldati in movimento. Nel Western Equatoria com’è
la situazione?
R. – La popolazione civile ha molta paura. Qui, la popolazione
è prevalentemente moru e non ha nulla a che vedere né con i dinka né
con i nuer. Sono, dunque, estranei allo scontro tribale. Soffrono, però, tale
scontro, perché ci sono episodi di violenza sulle donne, di furti, di saccheggi di
beni di prima necessità e quindi la gente sa che finirà con il pagare il prezzo di
questi scontri, che non riguardano loro personalmente.
D. – Dovrebbero cominciare
oggi ad Addis Abeba dei colloqui preliminari...
R. – Questa ipotesi di cessate-il-fuoco
mi sembra abbastanza difficile da mantenere. Le truppe delle Nazioni Unite sono state
rinforzate sulla carta, perché i contingenti arriveranno nella migliore delle ipotesi
tra quattro o sei settimane dai Paesi confinanti.