Kerry torna in Medio Oriente per rilanciare il processo di pace. Peggiorano le condizioni
di Sharon, in coma dal 2006
Le condizioni dell'ex premier israeliano Ariel Sharon in coma dal 4 gennaio 2006,
si sono aggravate di colpo e potrebbe spegnersi entro poche ore. Lo riferiscono i
media israeliani. Sharon, 85 anni, avrebbe sofferto di un blocco renale. Intanto torna
in Medio Oriente John Kerry, segretario di Stato Usa, per cercare di rilanciare il
dialogo tra israeliani e palestinesi. Sentiamo Graziano Motta: 00:01:02:66
Sul
processo di pace Davide Maggiore ha intervistato l'esperta dell'area Marcella
Emiliani:00:03:20:47
R. – Siamo solo ai preliminari e non vengono
ancora toccati quelli che sono i temi fondamentali del contenzioso: gli insediamenti
israeliani in West Bank sono la condizione più importante, perché i palestinesi davvero
si impegnino in questo negoziato. Sugli insediamenti, però, il premier israeliano
Netanyahu non intende cedere, anzi nelle tornate di liberazione di palestinesi, che
si sono avute da quando sono ripresi i colloqui di pace, tutte le volte che sono stati
liberati i palestinesi, è stata parallelamente annunciata la costruzione di altre
colonie.
D. – Trascorsa questa fase preliminare poi resteranno da affrontare
diversi nodi...
R. – Nell’agenda di Kerry, ma solo nell’agenda di Kerry, ci
sono dei temi enormi. Ad esempio, si procederà o non si procederà alla divisione di
Gerusalemme come chiedono i palestinesi? Su questo gli israeliani “non ci sentono”
e quindi difficilmente torneranno indietro. C’è il problema della sicurezza, ovviamente,
e poi c’è un problema in più, che è quello dei rifugiati palestinesi in Medio Oriente.
I campi profughi palestinesi, dagli accordi di Oslo del ’93 in poi, si sono sentiti
abbandonati e quindi hanno cominciato ad articolare delle loro politiche, nei Paesi
in cui sono ospitati. Va, dunque, rifatto un discorso su che fine faranno questi rifugiati.
D.
– In questo quadro, che importanza ha la liberazione di 26 prigionieri palestinesi?
R.
– Il valore di questa liberazione sta tutto nel fatto che testimonia comunque che
sia Israele sia una parte dei palestinesi, cioè quella che fa capo ad Al Fatah e al
presidente Abu Mazen, vogliono continuare a negoziare.
D. – Proprio Abu Mazen
ha detto che non ci sarà alcun accordo con Israele finché non saranno liberati tutti
i prigionieri palestinesi. Che valore hanno queste affermazioni?
R. – Queste
sono affermazioni volte a mantenere unita l’opinione pubblica palestinese. Sia Abu
Mazen sia Netanyahu hanno forti nemici interni, che sono contrari a questi colloqui.
Quindi è chiaro che Abu Mazen deve mostrare alla sua opinione interna di avere comunque
dei margini di azione, o se non altro di parola. Hamas ha contestato il diritto dell’Olp
di essere l’unica a rappresentare la causa palestinese, ma formazioni afferenti all’Olp,
quindi in teoria vicine ad Abu Mazen e ad Al Fatah, come il Fronte popolare di liberazione
della Palestina, si dicono contrarie a questi negoziati, come a suo tempo si dissero
contrarie agli accordi di Oslo.
D. – Ma anche Netanyahu, appunto, va incontro
a resistenze, all’interno della politica israeliana: la decisione di Netanyahu di
liberare i prigionieri palestinesi è stata contestata...
R. – Sì, è stata contestata
innanzitutto dal Jewish Home Party. Non scordiamoci poi che l’attuale ministro degli
Esteri israeliano, Lieberman, è da sempre contrario ad un accordo con i palestinesi,
lui e il suo Beiteinu Party. Ma la cosa forse più importante per Netanyahu è che c’è
tutta una fetta del suo stesso partito, il Likud, che non è d’accordo con la ripresa
dei negoziati, anzi sono già uscite tutta una serie di affermazioni di appartenenti
al Likud, come degli altri partiti della coalizione di governo ostili al negoziato,
che definiscono questi prigionieri che sono stati liberati come “bombe a tempo”. Li
vedono già, cioè, come futuri, possibili attentatori alla vita di civili israeliani.