Ritiro Nato dall'Afghanistan: incognite sulla realizzazione del gasdotto dal Turkmenistan
all'India
Un gasdotto di 1.700 km, che colleghi il Turkmenistan all’India, passando per Afghanistan
e Pakistan. È il Tapi, un’opera colossale dal costo inizialmente previsto di oltre
7 miliardi di dollari, già salito nelle stime ad almeno 10 miliardi di dollari, che
si presenta come una possibilità di cooperazione tra i Paesi coinvolti e le comunità
locali. Alla vigilia del ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan, entro il 2014,
cresce però la preoccupazione della comunità internazionale sulla stabilizzazione
dell’Afghanistan stesso e non solo. Sul futuro del gasdotto, Giada Aquilino
ha intervistato Riccardo Mario Cucciolla, studioso di Asia centrale e dottorando
all’Istituto di studi avanzati Imt di Lucca:
R. – E’ un’opportunità,
innanzitutto, per l’India e per il Pakistan, che sono due Paesi che in questo momento
stanno fortemente aumentando la domanda interna di energia. E’ inoltre un’opportunità
non soltanto per i mercati di destinazione, ma anche per i Paesi di transito, come
l’Afghanistan e il Pakistan, e per i Paesi produttori, in questo caso il Turkmenistan.
E non solo per motivi economici, ma pure politici. Vediamo che, attraverso il Tapi,
il Turkmenistan riuscirebbe effettivamente a diversificare le proprie rotte di esportazione.
Negli scorsi anni, nell’ultimo quinquennio, c’erano stati problemi di esportazione
verso le rotte tradizionali, destinate al mercato russo. Dal 2008 il Turkmenistan
ha iniziato così a cercare nuove rotte di esportazione: una settentrionale, che sempre
attraverso l’Asia centrale sarebbe stata destinata alla Cina, e una, adesso, meridionale.
Il Turkmenistan, un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni delle proprie
risorse naturali, avrebbe così l’opportunità di trovare degli effettivi acquirenti,
mentre la Russia si è dimostrata non eccessivamente interessata ad aumentare le forniture
provenienti dall’Asia centrale. Ciò che interessa in questi mesi è poi la situazione
che riguarda l’Afghanistan, che potrebbe avere dalla realizzazione di questo progetto
degli incredibili vantaggi, non soltanto in termini economici. Sarebbe, infatti, soprattutto
un’opportunità per rilanciare una politica estera ed energetica di un Paese che, al
momento, cerca di trovare una propria via verso l’indipendenza.
D. – Quando
ormai è imminente il ritiro delle truppe Nato dall’Afghanistan, ci si domanda, però,
quanto sia stabilizzato il Paese e quanto l’insicurezza sul terreno possa poi minare
la costruzione del gasdotto, ma anche l’opera una volta terminata...
R. – Questa
è la grande sfida dell’Afghanistan post 2014. Nei prossimi mesi verrà ritirata la
maggior parte dei contingenti internazionali. In Afghanistan, ci saranno anche le
elezioni presidenziali in aprile. Bisognerà vedere come riusciranno a trovare dei
compromessi le prossime dirigenze afghane: come si riuscirà ad inserire all’interno
del processo di stabilizzazione le stesse popolazioni e le elite dominanti.
D.
– Al di là degli interessi dei Paesi coinvolti, in gioco ci sono le grandi multinazionali
dell’energia?
R. – Adesso bisognerà vedere fino a che punto le multinazionali
saranno interessate ad investire in un progetto così ambizioso, ma allo stesso tempo
così rischioso. Nei prossimi mesi vedremo se la Banca asiatica di sviluppo sarà effettivamente
capace, attraverso il consorzio multilaterale concordato con i Paesi interessati,
di trovare gli ormai stimati dieci miliardi di dollari e oltre per destinarli al progetto.
D.
– Che tempi avrà il gasdotto?
R. – Inizialmente doveva essere completato e
diventare operativo già entro la fine del 2014. Probabilmente l’operatività del gasdotto
slitterà al 2015, perché ci sono ancora problemi, non soltanto logistici, ma anche
politici e finanziari, legati all’investimento e alla realizzazione dell’opera.