Thailandia. Elezioni il prossimo 2 febbraio. L’opposizione non accetta il governo
provvisorio Shinawatra
Thailandia. In un discorso, caratterizzato da una forte emozionalità, la premier Yingluck
Shinawatra ha ribadito l’impossibilità di costituzionale di dimettersi dalla guida
del governo ad interim. Ieri lo stesso primo ministro ha sciolto il Parlamento in
vista di prossime elezioni che si terranno il 2 febbraio. Intanto il fronte della
protesta resta combattivo. Stefano Vecchia:
Oggi, Giornata
mondiale dei Diritti umani, per la Thailandia Giorno della Costituzione, a Bangkok
la lunga crisi sembra tutt'altro che risolta. La notte scorsa, il leader della protesta
Suthep Thaugsuban ha dato aa governo 24 ore per le dimissioni, un ultimatum che seguiva
una giornata di ampio consenso popolare. Questa mattina, intervistata in occasione
dell'incontro di gabinetto nella sede del Club dell'esercito, la premier ha detto
di avere concesso tutto quanto possibile e si è commossa parlando della prospettiva
che la sua famiglia debba lasciare il paese, ma ha confermato la posizione che l'esecutivo
da lei guidato non ha un'alternativa legale. Da oggi il paese non ha più un parlamento,
sciolto ieri su richiesta del primo ministro approvata dal sovrano e vede il confronto
tra due poteri paralleli. Il primo, legalmente rappresentativo, il governo ad interim
guidato dalla signora Shinawatra; il secondo, il Comitato popolare per la riforma
democratica che raggruppa i leader della quarantina di movimenti associati attivamente
nella protesta. Quest'ultimo intende guidare la Thailandia verso una cosiddetta “rivoluzione
del popolo” dai contorni e dai limiti costituzionali indefiniti. La premier Yingluck
Shinawatra resta al momento al suo posto con il sostegno del suo partito, il Puea
Thai e di altri movimenti minori, ma anche di buona parte dell'elettorato rurale e
della sua espressione movimentista, le Camicie Rosse. La Commissione elettorale ha
individuato nel 2 febbraio il giorno utile per la consultazione elettorale ma il precorso
verso quella data è tutto in salita. Il Centro per l'amministrazione della pace e
dell'ordine, organismo incaricato di gestire la situazione di crisi, ha ordinato nella
serata di ieri l'evacuazione della polizia dal Palazzo del Governo e altri luoghi
sensibili, ma ha ribadito anche questa mattina che la protesta resta nell'illegalità
e i suoi leader perseguibili dalla legge. Ieri i manifestanti hanno dimostrato
di potere controllare la capitale, tuttavia resta incerto il risultato della loro
azione. La protesta potrebbe oggi occupare anche il Palazzo del Governo, totalmente
accerchiato da una folla sparsa ovunque nei dintorni, ma questo non sarebbe determinante,
a meno di un colpo di scena che tutti aspettano e molti anche temono.
Sulla
situazione Massimiliano Menichetti ha intervistato Carlo Filippini professore
di Economia politica all'Università Bocconi, esperto dell'area:
R. – Questa
situazione è la continuazione di una tensione, di una radicalizzazione della politica
thailandese che inizia sostanzialmente nel 2001, con la prima vittoria di Taksin,
il fratello dell’attuale primo ministro, e che ha avuto un momento di svolta nel 2006,
quando ci fu il colpo di Stato militare che rimosse Taksin. Lo scontro di oggi è lo
stesso di allora, da una parte la classe media e la borghesia più ricca, che è concentrata
a Bangkok, nella capitale, nonché i vecchi politici e in parte i militari che vogliono
mantenere i privilegi economici che si sono guadagnati in questi anni di sviluppo
economico; dall’altra parte, abbiamo – invece – Taksin, un politico certamente populista
ma che ha fatto molte riforme a favore delle classi rurali e soprattutto delle classi
più povere. In questo momento in Thailandia, questi gruppi – i cosiddetti “rossi”,
dal colore delle loro camicie – sono la stragrande maggioranza in Thailandia e di
fatto il partito di Taksin o di sua sorella ha vinto sempre le elezioni, dal 2001
in poi, con una maggioranza schiacciante alle ultime del luglio 2011.
D. –
In questo momento, la protesta è abbastanza pacifica. C’è il rischio – secondo lei-
di un degenerare della situazione?
R. – Purtroppo certamente c’è: per esempio,
nell’aprile maggio 2010 – tre anni fa – ci furono addirittura quasi un centinaio di
morti negli scontri che si sono verificati proprio a Bangkok, anche se probabilmente
non è questo il rischio più grande, lo scenario più probabile è quello della continuazione
di queste dimostrazioni da parte dei “gialli”. Giallo, in Thailandia, è il colore
del lunedì, il giorno in cui è nato il re e questi gruppi un po’ più elitari si appoggiano
sia pure indirettamente all’autorità del re.
D. – In questo momento, l’opposizione
rifiuta nuove elezioni: “Andremo avanti fino in fondo”, hanno ribadito i leader …
R.
– C’è il rischio di uno stallo politico di cui, per la verità, i militari approfittarono
nel settembre 2006 per il colpo di Stato che estromise un premier Taksin eletto regolarmente.
D.
– C’è il rischio che i militari intervengano nuovamente?
R. – Non penso ad
un nuovo colpo di Stato, perché l’esperienza del 2006 è stata completamente negativa,
per loro: hanno fatto approvare una costituzione ma poi, alle elezioni, ha sempre
vinto il partito di Taksin e anche le riforme che loro avevano promesso non sono state
praticamente mai attuate.
D. – La data del 2 febbraio, dunque, non è una certezza:
perché la premier ha giocato questa carta?
R. – Per l’attuale premier fare
le elezioni non costituisce un enorme rischio perché con una probabilità molto, molto
elevata vincerà le elezioni. Nelle province del Nord e del Nordest e anche in gran
parte delle province del Centro, il partito legato a Shinawatra è chiaramente maggioritario.
Il partito democratico, che è il principale partito di opposizione, ha probabilità
di vincere solo nelle province del Sud e naturalmente anche a Bangkok, nella capitale.
Però, le regioni favorevoli a Shinawatra sono molto più popolate della regione unica
– per la verità – e della capitale, che sono invece più legate all’opposizione. Per
questo, temo che l’opposizione cercherà di boicottare le elezioni perché alla prova
dei fatti, alla prova del voto sicuramente perderebbe.