Il Centrafrica torna a sperare. Dopo il via libera del Consiglio di Sicurezza dell’Onu,
le truppe francesi sono giunte nel Paese, accolte dall’entusiasmo della popolazione,
per riportare pace e sicurezza. Parigi ha schierato 1600 militari con l'obiettivo
di porre fine ai massacri compiuti dai miliziani islamisti "Seleka". In questo scenario
la Commissione europea ha annunciato l'organizzazione di un ponte aereo tra Douala,
in Camerun, e Bangui per appoggiare le operazioni umanitarie nella Repubblica Centrafricana.
Giulio Albanese:
Da ieri, decretati
tre giorni di lutto nazionale per onorare la memoria delle centinaia di vittime dei
massacri che da settembre stanno insanguinando la Repubblica Centrafricana. Da quando
cioè il presidente golpista, Michel Djotodia, ha deciso di sciogliere la coalizione
Séléka che gli aveva permesso di andare al potere, defenestrando l’ex presidente François
Bozizé. Intanto, nella capitale Bangui la popolazione traumatizzata dalle stragi -
il bilancio della Croce Rossa Internazionale sfiora le 400 vittime, solo da giovedì
scorso – guarda con speranza all’intervento dell’intervento francese. Da sabato sera,
sono dispiegati sul terreno 1600 soldati inviati da François Hollande per normalizzare
il Paese e disarmare la galassia di milizie e gruppi armati che seminano morte e distruzione
nella Repubblica Centrafricana. Riuscire a garantire la sicurezza, considerando la
vastità dei territori rurali, non sarà facile anche perché il conflitto è asimmetrico
e le componenti in campo imprevedibili e agguerrite, alcune delle quali sostenute,
attraverso il vicino Sudan, dal movimento salafita di matrice saudita.
Scontri
si registrano ancora un po' dovunque, come a Bozoum, nella zona occidentale del Paese.
Qui opera il padre carmelitano Aurelio Gàzzera, missionario in Centrafrica
da oltre 20 anni, che – al microfono di Fabio Colagrande – spiega quanto sta
succedendo in questa località:
R. – Qui c’è
poco di politico. Questa è gente che ha perduto tutto e dopo otto, nove mesi di questo
regime terrorista, si hanno queste reazioni, che spesso, purtroppo, coinvolgono le
varie comunità: musulmane, cristiane e così via. Crea dei problemi, quindi, a quel
livello. Sono banditi. Ci sono stati massacri veri e propri prima da una parte e poi
dall’altra.
D. – Come vede il via libera dell’Onu a questa missione di peace-keeping?
R.
– E’ positivo che l’Onu intervenga e che la Francia possa fare qualcosa, visto che
hanno una ottima conoscenza del terreno e del Paese.
D. – Sicuramente, però,
saranno ancora settimane e mesi di violenza ...
R. – Quello che si teme è,
appunto, che prima di andarsene, questi ribelli - che sono assolutamente da mandare
via - faranno disastri. Questo è quello che si teme. Adesso vedremo un po’ nei prossimi
giorni, se ci sarà un’evoluzione rapida o meno. Vedremo un po’.
D. – Qual è
la situazione umanitaria della popolazione di Bozoum?
R. – Adesso, moltissimi
si sono rifugiati nella nostra missione e ci stiamo organizzando per cercare di accoglierli
in modo decente. Già la notte scorsa erano 300, 400, ma adesso, penso, saranno già
oltre un migliaio. Qui si sentono in sicurezza ed è anche bello che la missione sia
un luogo di rifugio e di relativa tranquillità.
D. – La maggioranza è di religione
cristiana?
R. – La maggioranza sì. I musulmani, qui, credono siano un dieci
per cento, anche se è una comunità piuttosto radicata, perché sono qua da anni. Non
ci sono grossi problemi tra i musulmani e i cristiani: c’è sempre stata una buona
convivenza, con qualche piccolo problema ogni tanto. Questa guerra, però, sta mettendo
un po’ tutto in gioco.
D. – Uno degli ultimi timori è davvero che questo tipo
di conflitto si trasformi in un conflitto interreligioso...
R. – La possibilità
c’è ed è già molto concreta. Ci sono già state delle violenze che mirano direttamente
ai musulmani, con poi reazioni contrarie. E quelle purtroppo ci sono già state dall’inizio.
Questo movimento della Seleka, infatti, è composto in maggioranza da musulmani del
Nord, del Sudan e del Ciad, quindi questo ha creato tensione, gelosia, rancore e sarà
poi difficile da cambiare, ci vorrà molto tempo.
D. – Come la vostra missione,
la vostra parrocchia, sta preparando la festa del Santo Natale, in un momento così
difficile di paura?
R. – E’ un momento in cui sentiamo anche forte il senso
della speranza e dell’attesa, che il momento liturgico ci suggerisce. In questi giorni,
appunto, si fa sentire più forte questo desiderio. La prima domenica di Avvento abbiamo
iniziato con la Lettura di Isaia, dove si dice: “Forgeranno le loro spade in vomeri”.
Questo ci ricorda che la pace è un dono, ma bisogna anche saperlo lavorare e preparare.