Usa: il ricordo di John Kennedy a 50 anni dall'assassinio a Dallas
Tutta l’America ha ricordato John Fitzgerald Kennedy, nel giorno del cinquantesimo
anniversario dell'assassinio a Dallas, in Texas, dell'ex presidente avvenuto il 22
novembre 1963. Da New York, Elena Molinari:
Un minuto di
silenzio ha fermato l’America alle 2 del pomeriggio, l’ora in cui fu annunciata la
morte del 35.mo presidente degli Stati Uniti. Barack Obama ha però preferito ricordare
il contributo lasciato in vita dal vigoroso Jfk, e ha incontrato i vertici del Peace
Corps, un’istituzione creata da Kennedy che invia giovani volontari a lavorare per
la pace e lo sviluppo nel mondo. “Anche se la vita di John Kennedy è stata breve –
ha detto il capo della Casa Bianca – la sua visione continua a vivere nelle generazioni
che ha ispirato”. Anche alla Camera, dove Kennedy è stato deputato dal 1947 al 1953,
il reverendo John Robert Skeldon ha citato l’idealismo del presidente assassinato
invitando come già fece Jfk a "non chiedere cosa il Paese può fare per noi" ma "chiedere
cosa possiamo fare noi per il nostro Paese". Intanto migliaia di persone hanno partecipato
alle celebrazioni a Dallas per il cinquantenario delle morte di Kennedy e ancora di
più si sono recate al cimitero di Arlington, in Virginia, per rendere omaggio alla
tomba dell’ex presidente.Celebriamo "l'impronta indelebile di Kennedy sulla storia
americana": così, dunque, si è pronunciato Barack Obama nel giorno del 50.mo anniversario
dell’uccisione di John Fitzgerald Kennedy. Obama ha sottolineato che “la visione di
Kennedy per gli Stati Uniti e per il mondo vive ancora oggi nelle generazioni che
ha ispirato”.
Per una riflessione su queste parole, Fausta Speranza ha
intervistato Daniele De Luca, docente di storia delle relazioni internazionali
all’Università del Salento:
R. – Diciamo
che, nella storia americana, dopo la morte del presidente Kennedy e quindi la morte
della speranza, dell’innocenza, gli americani e molti europei sono stati alla ricerca
di un nuovo Kennedy e di quello che avrebbe rappresentato. Obama non avrebbe mai potuto
dire una cosa diversa da quello che ha detto di Kennedy anche perché il presidente
Obama è forse quello che nella storia è stato maggiormente identificato come continuatore
della vita e degli ideali di Kennedy. Ideali che, però, alla fine – diciamolo chiaramente
– sono stati realizzati non da lui ma dal suo successore, e cioè dal presidente Johnson:
molti, però, dimenticano questo piccolissimo particolare.
D. – Ricordiamo questi
ideali?
R. – Gli ideali della "nuova frontiera" si sono trasformati nella "grande
società" johnsoniana, cioè i diritti civili per tutti, la difesa della sicurezza nazionale,
nel tentativo però sempre di non ledere i diritti dei singoli all’interno degli Stati
Uniti. Ciò che Kennedy ha detto, nel suo famoso discorso - e cioè di non pensare a
quello che l’America può fare per i cittadini ma l'opposto - é più che altro pensare
alla difesa individuale dei cittadini. E questa è una cosa che è stata rilanciata
da Kennedy ma poi sviluppata ed approvata dal presidente Johnson, soprattutto con
la legge sui diritti civili e con il diritto di voto ai neri.
D. – Obama ha
reso omaggio alla tomba di Kennedy, nei giorni scorsi, e nel giorno stesso dell’anniversario,
però, ha scelto di non essere a Dallas, dove quest’anno si celebra il 50.mo anniversario
della morte, mentre ha scelto di incontrare rappresentanti dell’associazione di volontariato
“Peace Corps”. Vogliamo commentare questa scelta?
R. – Questo è stato forse
l’organismo di volontari per la diffusione del benessere nel mondo che rappresenta
il segno indelebile, la vera eredità del presidente Kennedy: far sì che i giovani
prendessero magari un anno sabatico impegnandosi per almeno un anno per aiutare le
popolazioni in difficoltà. Diciamo che quello che fanno le ong oggi sono un po’ le
emanazioni dei discorsi pronunciati dal presidente Kennedy.
D. – Se è vero
che Kennedy ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del dopo-John Fitzgerald
Kennedy, è anche vero che lui stesso era in continuità con la Storia americana, lui
stesso era un prodotto della Storia americana …
R. – Assolutamente sì! Lui
non è uscito dai canoni della Storia americana, né in politica interna né in politica
estera; soprattutto in politica estera. Non dimentichiamo che il presidente Kennedy
non è stato quello che definiamo un progressista in politica estera, anzi: era un
cold warrior, un convinto “guerriero” della guerra fredda che in più occasioni – ricordo
il Vietnam, ricordo Cuba – ha saputo fronteggiare fermamente l’Unione Sovietica come
un qualsiasi altro presidente, soprattutto come il suo predecessore, il generale Eisenhower,
che sicuramente veniva da una tradizione politica molto diversa da quella di Kennedy,
in quanto repubblicano.
Un “crimine ignobile” che “ci lascia profondamente
scioccati”. Con queste parole, Paolo VI accoglieva la notizia dell’uccisione a Dallas
del presidente americano John F. Kennedy, il 22 novembre di 50 anni fa. Nelle parole
di Papa Montini - che aveva incontrato Kennedy il 2 luglio del ’63 - sono sintetizzati
i sentimenti prevalenti in tutto il mondo subito dopo la tragica morte di JFK. “Questo
– ha affermato, dal canto suo, Barack Obama – è il giorno in cui celebrare l'impronta
indelebile di Kennedy sulla nostra storia”. Il presidente Usa, che martedì aveva deposto
una corona di fiori alla tomba di Kennedy ad Arlington, non è stato tuttavia alla
commemorazione in programma ieri a Dallas. A mezzo secolo di distanza, nonostante
il giudizio contrastante degli storici sulla sua amministrazione, Kennedy resta un
esempio di leadership carismatica capace di generare speranza al di là dei confini
della politica. Sul significato che assunse all’epoca l’uccisione di Kennedy e l’attualità
della sua figura, Alessandro Gisotti ha intervistato Agostino Giovagnoli,
docente di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano:
R. – È stato
il primo presidente cattolico degli Stati Uniti e questo aveva costituito una sorta
di grande novità, di grande speranza, di grande attesa per i cattolici di tutto il
mondo. Paolo VI, che aveva incontrato Kennedy pochi mesi prima, rimase profondamente
turbato da questo evento che sembrava in qualche modo incrinare quelle speranze dei
primi anni ’60, all’interno dei quali si colloca anche l’elezione dello stesso Paolo
VI e le speranza che hanno accompagnato l’inizio del suo Pontificato.
D. –
Questo anche perché Giovanni XXIII, come poi Paolo VI, guardavano con simpatia all’azione
dell’amministrazione Kennedy rispetto ai diritti civili dei neri. Lo stesso Paolo
VI lo aveva detto, nel discorso a Kennedy, il 2 luglio del ‘63…
R. – Certamente.
Proprio in un discorso del giugno ’63, pochi giorni prima di incontrare Paolo VI,
Kennedy pronunciò un discorso molto importante sugli studenti neri dell’Alabama che
erano stati esclusi dall’università. Fece un radiomessaggio nazionale, molto forte
e molto incisivo, in difesa del diritto di questi ragazzi di iscriversi all’università.
Si è criticato Kennedy perché è stato “uomo di parola e poco di fatti”, ma - a parte
la brevità della sua presidenza - credo che bisogna rivalutare le parole, perché ci
sono parole che sono più importanti dei fatti! Kennedy è stato un uomo che ha saputo
dire parole importanti per interpretare le attese, le speranze e la volontà di cambiamento
del mondo proprio nel suo tempo.
D. – Poi, ovviamente, c’è quella stagione
breve, intensa e drammatica della crisi di Cuba, con questo rapporto a distanza con
Giovanni XXIII, che per altro voleva ricevere Kennedy nel luglio del ’63 ma morì a
giugno e ci fu il Conclave in mezzo... Fu regalata a Kennedy la Pacem in terris autografata
da Papa Roncalli. Questo dono post mortem commosse anche molto lo stesso Kenney…
R.
– Non c’è dubbio. La Pacem in terris è strettamente legata all’evento di Cuba. L’idea
di scrivere un’Enciclica interamente dedicata al tema della pace nasce proprio dalla
crisi di Cuba. E a questa crisi il Papa non fu estraneo: Giovanni XXIII fu coinvolto
in quella crisi, fu coinvolto pubblicamente e le parole che egli disse per la pace
sono note. Fu coinvolto anche per via diplomatica, perché proprio a nome di Kennedy
fu contattata la Segreteria di Stato, e fu sollecitato l’intervento del Papa e quell’intervento
ci fu. Dunque, forse, dobbiamo anche a Giovanni XXIII se poi la guerra non è scoppiata
durante la crisi di Cuba. Credo che Kennedy fosse grato al Papa per questo suo intervento.
D. – Man mano che passano gli anni, escono documenti e le valutazioni degli
storici si fa a volte più severo nei confronti dell’amministrazione Kennedy, anche
se ovviamente il giudizio rimane sempre incompleto perché è una vita “incompiuta”,
quindi anche politicamente “incompiuta”. Tuttavia, il mito, l’immagine di John Kennedy
resta quasi intoccabile, intangibile nonostante revisionismi, scandali… Perché secondo
lei?
R. – Perché credo che effettivamente Kennedy abbia rappresentato la voce
della speranza. Non è solo merito suo, ovviamente… Ha però saputo interpretare un’epoca,
un’attesa, una volontà di cambiamento che era molto forte. Naturalmente, il bilancio
della presidenza Kennedy presenta luci ed ombre, ma questo è normale. Qualunque vicenda
politica presenta luci ed ombre. Piuttosto, oggi vedo in atto un tentativo “minimalista”
che è quello di banalizzare tutto: per cui non si parla tanto di Kennedy come uomo
politico, ma della sua vita privata, i gossip… E’ un minimalismo che rispecchia un
po’ i nostri tempi, tempi “avari di visioni” come diceva Giovanni Paolo II. Per questo,
credo che ci faccia bene ricordare Kennedy, non per farne un mito ma per ricordare
che si può anche non essere minimalisti ed avere grandi visioni.