Clima: vertice di Varsavia lontano da un accordo. Stallo sui fondi per la riduzione
di emissioni
Si chiude oggi a Varsavia il vertice sul clima delle Nazioni Unite. Si continua dunque
a negoziare, anche se sembra sfumare l’ipotesi di un accordo-quadro in vista della
conferenza di Parigi del 2015, nella quale dovrà essere varata la strategia per la
riduzione dell'effetto serra che entrerà in vigore nel 2020. Permane, infatti, una
spaccatura tra i Paesi europei e quelli in via di sviluppo sui finanziamenti per la
riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Per un’analisi delle ragioni che
complicano il negoziato, Marco Guerra ha sentito Antonio Ballarin Denti,
professore di Fisica dell’Ambiente all'Università Cattolica del Sacro Cuore:
R. - Ci sono
due ragioni: una è di ordine strutturale, l’altra è legata alla contingenza della
crisi. Partendo da quest’ultima, in questi ultimi cinque anni le disponibilità economiche
dei Paesi occidentali si sono fortemente ridotte perché è aumentato il debito, è aumentato
il deficit e perché al tempo stesso c’è una crisi finanziaria ed economica. Quindi
un investimento di risorse per la cosiddetta “mitigazione” - ovvero il taglio delle
emissioni che comporta dei sacrifici, degli investimenti da parte del settore industriale
e dei trasporti - sta venendo meno e c’è una maggiore difficoltà a prendere degli
accordi vincolanti e impegnativi. Il secondo motivo è che ci si sta accorgendo che
un’azione concertata di ampio respiro, come richiederebbe il controllo dei fattori
che regolano il clima - essenzialmente le sue emissioni nell’atmosfera - richiederebbe
un’autorità di governo sovranazionale, e al punto in cui sono le cose, questa autorità
manca palesemente. Le Nazioni Unite li possono mettere intorno ad un tavolo e discutere.
Ma i singoli Paesi hanno interessi divergenti: i Paesi delle economie emergenti hanno
interessi diversi da quelli dell’Europa che a sua volta ha interessi diversi dagli
Stati Uniti. E quindi, se non c’è nessuno che impone una soluzione, l’accordo appare
lontano.
D. - Lei conferma che c’è una spaccatura tra Paesi sviluppati che
premono per accordi più stringenti e Paesi in via di sviluppo, che in sintesi dicono:
“Voi avete inquinato per decenni. Adesso è il nostro momento di crescita…"
R.
- Direi che sostanzialmente questo panorama che si trascina da Kyoto in poi è rimasto
invariato. Paesi ed economie emergenti chiedono di poter recuperare il terreno perduto
con una maggiore indulgenza verso di loro per ciò che riguarda le tecnologie e quindi
la quantità di emissioni. C’è da dire, però, che c’è un aspetto positivo in questo
quadro che sembrerebbe abbastanza sconfortante: in linea di principio tutti i Paesi
sono d’accordo su due punti chiave. Il primo, che il clima sta realmente cambiando:
ormai questo dato è universalmente accettato. Il secondo, che è l’uomo il maggiore
responsabile di questa deriva del clima con le sue emissioni. Quindi di fronte a queste
due evidenze, in qualche modo, tutti sono chiamati ad esercitare una responsabilità,
che in linea di principio dichiarano, ma che nei fatti è difficile da concretizzare
in azioni di governo.
D. - I cambiamenti climatici possono essere fermati o
piuttosto ormai bisogna puntare ad un progressivo adattamento della società e dei
territori a quelli che sembrano fenomeni sempre più frequenti …
R. - Il problema
dell’adattamento diventa un problema centrale, ma non sostitutivo del problema della
mitigazione, quindi della riduzione delle emissioni, e a questo punto un problema
di emergenza che tocca soprattutto le aree più vulnerabili del pianeta: l’Africa con
la desertificazione, le zone influenzate dai monsoni, l’ambiente montano come quello
alpino … Tutte situazioni che richiedono misure di adattamento di tutti i fattori
di vulnerabilità - l’ambiente naturale costruito, l’ambiente antropico, la salute
dell’uomo, l’agricoltura - in modo che si trovino degli accorgimenti per fare i conti
con un clima che comunque cambierà.